Roccaforte straniera in località non pervenuta,
Data non pervenuta
Lo scorrere del tempo, ormai, aveva perso d’importanza. Che senso aveva sapere quante volte quel continuo rincorrersi di sole e luna si susseguiva, se poi lui continuava a trovarsi nella stessa, identica, situazione? I giorni, ormai, si ripetevano uguali a se stessi, fino all’esasperazione: afflitto dai dolori per la posizione in cui era costretto e per le ferite riportate, perennemente stordito, reso poco lucido dalle droghe che lo costringevano ad ingerire, nascoste dalla misera facciata di un pasto frugale ed essenziale, che in più di un’occasione i suoi aguzzini erano stati costretti a farglielo ingerire a forza. Anche le funzioni corporali si erano ridotte al minimo, come se il corpo stesso cercasse in tutti i modi di assimilare e sfruttare quanto più possibile, di quello che otteneva, per poter sopravvivere. Certo, non andare di corpo non lo preoccupava poi molto, ma discorso diverso era se, al contrario, rischiava un blocco renale… Tanto per aggiungere la ciliegina sulla torta di merda in cui era immerso.
Doveva assolutamente fare qualcosa, qualunque cosa, per sottrarsi da quella situazione. Raccogliere energie, quel tanto da permettergli di cercare una via di fuga, al minimo segnale di distrazione: appariva come uno scenario tanto invitante, ma dall’attuazione impossibile. Niente bis, allora, di quanto accaduto in quel villaggio di aborigeni, con i suoi spettri di acre fumo nero ad atterrire quegli animi e permettergli di muoversi in tutta tranquillità. Evidentemente i Kami e le divinità protettrici di quella gente non avevano gradito quel suo spettacolo e, adesso, doveva inventarsi qualcos’altro per salvarsi la pellaccia.
Provare una via più diplomatica, sfruttare la sua parlantina, magari per cercare un accordo con i suoi aguzzini, per salvarsi la vita… Sarebbe stato l’ideale, peccato, solo, per quel piccolo dettaglio della differenza di idioma. Lui non capiva un’acca di quello che quei tizi dicevano e loro, presumeva, non capivano un’acca di quel che diceva. Non che fosse stato particolarmente loquace, in questi giorni di prigionia. Aveva preferito la via del silenzio, ascoltare, cercare di studiare e comprendere quel loro modo di parlare, sperando di riuscire, seppur in minima parte, a comprenderlo. Sfortunatamente, però, le droghe ovattavano la sua percezione dei suoni, sempre ammesso che ciò non fosse dovuto ad una lesione del timpano, quindi le voci fuori cabina gli giungevano parecchio sottili, difficili da afferrare.
Poi, però, qualcosa ruppe quella routine. Lo Yamanaka se ne accorse solamente quando sganciarono la carrucola che lo teneva appeso al soffitto della sua cabina, facendolo cadere rovinosamente a terra. Un verso strozzato gli sfuggì dalle labbra spaccate, il dolore alle spalle ad invadergli il corpo come una fiamma bianca, tanto intenso da farlo rabbrividire da capo a piedi. Pronunciò un’imprecazione, mentre cercava di mettersi dritto, provare, quanto meno, ad ergersi in ginocchio, ma gli uomini venuti a prenderlo non gliene diedero il tempo, agguantandolo in malo modo dalle braccia, procurandogli un’ulteriore incremento di glutammato peptide, come se non fosse palese come i suoi neuro recettori stessero mandando segnali a tutto spiano, fuochi d’artificio a forma di SOS, resi ancora più luminosi dal forte stress a cui era sottoposto.
Con uno strattone, cercò di divincolarsi dalla presa di uno dei due, tentando malamente di mettersi dritto da solo, provando a muovere qualche passo, incerto a causa delle gambe che formicolavano, per via della prolungata sospensione a cui era stato sottoposto, per non parlare delle penetranti stilettate che gli causava la lesione al ginocchio, una pugnalata dritta sul tendine del quadricipite femorale, tra la sezione della fascia lata e la rotula, che si ripeteva ogni qual volta poggiava il peso sull’arto sinistro. Lo spintonano, quando sembra rallentare il passo, strattonandolo, per farlo andare più veloce, ma al giovane non sembra importargliene poi molto.
La sensazione di calore della luce del sole è una carezza delicata, così come il soffio del vento un tenue palliativo ai suoi dolori. Anche la sensazione dei diversi materiali sotto i piedi nudi, in qualche modo, sembrano infondergli una tenue sicurezza. Quelle sensazioni sono segni evidenti del fatto che si, è ancora vivo e si, può ancora trovare un modo per scampare anche a questo supplizio. Il cervello, quindi, galvanizzato da tutti quegli enzimi in circolo, analizza famelico, gli occhi a scrutare quanti più dettagli possibili, le orecchie tese, pur di riuscire a capire dove si trovasse e cosa, quella gente, si dicesse. E quando si rende conto del luogo in cui si trova, il giovane non può far altro che sospirare, frustrato. Ora si che poteva dire addio all’idea di sgattaiolare via come un topolino: troppa gente armata con cui fare i conti, almeno nelle condizioni in cui versava, anche se… Per come era ridotto, anche un bambino armato di bastone poteva facilmente metterlo al tappeto.
Cerca di memorizzare la strada che percorrono, ma sa bene che ha poco senso: anche riuscisse a fuggire, sarebbe impossibile farla franca. Davvero, nella sua mente, si delinea l’idea di cercare vie traverse per ottenere la salvezza. In cuor suo spera lo stiano portando dal loro capo, forse quell’ometto bizzarro che gli era sembrato di aver visto, durante i primi giorni di prigionia…. Almeno lui, a differenza degli altri, gli aveva dato l’impressione di comprendere un minimo il suo linguaggio, magari avrebbe trovato un modo per patteggiare la sua libertà e…
Quando l’ennesima porta si apre, Kacchan quasi non si sorprende di ritrovarsi nell’ennesima cella. Probabilmente vogliono tenerlo qualche giorno li, prima di farlo parlare col loro capo, ma… C’è qualcosa, in quella stanza, che gli lascia una strana sensazione di disagio addosso. Prima ancora di notare le cinghie su quello che sembra un tavolo, è l’odore a fargli iniziare a battere il cuore all’impazzata, il respiro affannoso. Per un attimo la vista, già di per sè offuscata, si tinge di rosso, l’arredo di quel sotterraneo a sostituirsi con ben altra stanza di muratura, con un arredamento ben diverso, un bambino che veniva trafitto dalla lunga spada serpeggiante della Tsuchikage e il suo sangue ad insozzarlo da capo a piedi.
Un fremito, seguito da una risatina isterica, mentre la stanza, ai suoi occhi, cambia nuovamente aspetto: un vecchio deposito interrato, un uomo legato ad una sedia, con gli arti martoriati, l’odore di sangue ed urina ad ammorbare l’aria, appesantito da quello delle sigarette che lui era solito fumare. Le suole delle sue scarpe ormai guazzano nei liquami della sua vittima, sarebbe stato utile un canale di scolo, per ripulire quello schifo, ma a lui non importava. Dopotutto, aveva già le sue
anime ad ammorbargli lo spirito, con la loro sete di vendetta, nei confronti dell’uomo sui cui si era tanto accanito. Quel mercante, alla fine, lo aveva lasciato lì, a macerare, avvolto dalle anime che bramavano lo scotto per le sofferenze che avevano patito in vita, a causa delle sue malefatte.
« Chikushou, ma che bel posticino… » Non può fare a meno di trattenersi, mentre lo prendono di peso e lo piazzano su quel tavolo, legandolo stretto con diverse cinghie di cuoio, immobilizzandolo per bene. Trattiene il fiato, divorato da sensazioni estremamente contrastanti, mordendosi il labbro inferiore, mentre saggia la morsa ferrea del cuoio sulla pelle nuda. Sa bene cosa succederà, di lì a poco, e tutto si sarebbe giocato su quel breve lasso di tempo, quel frangente in cui vittima e carnefice incrociano lo sguardo ed entrambi comprendono cosa ne sarà l’uno dell’altro.
Quando sente la porta aprirsi nuovamente, dei passi annunciare l’arrivo di chi è stato mandato a fargli pentire di essere uscito dal grembo materno, un brivido di eccitazione lo pervade da capo a piedi, consapevole di come, ciò che pronuncerà, potrebbe costargli la vita. Tutto, adesso, si gioca su una sottile, labilissima, domanda: colui mandato a torturarlo, sarà in grado di comprendere un minimo quel che lui avrà da dire?
« Anulare e mignolo della mano destra sono insensibili, così come il resto dell’avambraccio. Probabilmente è dovuto ad una lesione del nervo cervicale. Il ginocchio sinistro, invece, è già danneggiato, nel caso avessi intenzione di provare con una martellata sulle rotule. Se vuoi provare con dei chiodi sotto le unghie, non garantisco però di una sua utilità: per curiosità, una volta, l’ho provato… Certo, fa un male porco, ma… Beh, la sensazione del metallo nella carne è… particolare, forse è per questo che mi piace riempirmi di piercing in ogni dove… E si, ho anche esplorato l’intrusione di oggetti oblunghi in particolari orifizi e questo non di mia volontà. Lo sto dicendo giusto per dovere di cronaca, non vorrei snervarti nel tuo cercare di estrapolarmi informazioni sotto tortura.» Inizia a parlare il giovane, lo sguardo rivolto verso l’alto. Non ha ancora visto in faccia il suo aguzzino.
« E ti dirò, sinceramente non ho voglia di provare questa inaspettata inversione di ruoli, ma… Non ho la fortuna di certe persone, che puoi tagliuzzarle a loro piacimento e non batteranno ciglio, quindi perché perdere tempo a sporcare gli strumenti del mestiere? Ho cose in sospeso a cui tengo particolarmente portare a termine, perciò risponderò senza problemi a tutte le domande che mi farai. » Solo allora volge lo sguardo e gli occhi cobalto del giovane vengono attratti, curiosi, dal viso di quell’uomo. Ironico come avessero gli stessi gusti, in fatto di taglio di capelli, ma se lui aveva usato quello stratagemma per nascondere parte delle cicatrici da ustione, l’altro lo sfoggiava per risaltare l’enorme cicatrice che gli deturpava il volto. Gli occhi del giovane osservano curiosi la linea che, presume, sia stata tracciata da una lama, fino a fermarsi su quel suo sguardo sobriamente triste. Quell’uomo, deve ammetterlo, lo incuriosisce da matti… O, più semplicemente, il matto, lì dentro, è proprio lui, visto che sembra manifestare fin troppo spesso uno spiccato interesse per persone palesemente disturbate in qualche maniera: vedasi come è andata a finire con Jikan…
« Come te la sei fatta? » Gli domanda, visibilmente incuriosito. Il suo sguardo non si stacca da lui, cercando di seguirlo ad ogni suo passo.
« Certo, sei tu che devi fare le domande, ma volevo provare a rompere il ghiaccio… Se vuoi, ti posso dire come mi sono procurato questa… » E, così dicendo, con un cenno del capo fa riferimento alle enormi cicatrici da ustione che gli coprono buona parte del braccio e del fianco, oltre che parte di collo e mascella.
« Dalle mie parti esistono oggetti in grado di esplodere a comando, e ti sorprenderesti se ti dicessi che potrebbero assumere le forme più disparate. »