奴隷制 Doreisei - "Elohim, ascoltaci", Quest stabilizzazione Bijuu (Matatabi, metà positiva), per Jöns

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view post Posted on 24/8/2018, 09:30     +1   -1
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"Perché questa volta io mando tutti i miei flagelli contro di te,
contro i tuoi ministri e contro il tuo popolo,
perché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra."
(Es IX, 14)




Distretto di Tottori, nazione di Sakyū.
Giugno 218.

- Chi ti ha detto di fermarti, verme?!
Lo schioccare di una frusta si levò alto, seguito dal grido sofferente della vittima, un anziano assai magro e dagli occhi scavati in un volto emaciato. Vi fu un secondo colpo, poi un altro urlo. Nessuno tuttavia mosse un dito - e come avrebbero potuto, anche volendo? Quella era ormai la triste normalità, in quelle terre abbandonate da Dio. Una nazione prospera, Sakyū, ma insozzata del sangue di chi l'aveva costruita, con il sudore e con la vita.
- Padre, perché nessuno corre in soccorso di quell'uomo? - chiese una bambina a bassa voce, senza però distogliere l'attenzione dal suo incarico; le piccole mani rovinate dal lavoro continuavano ad incidere la pietra, con scalpello e martello. Seguì una terza frustata e a quel punto la piccola non poté far a meno di sollevare il capo.
- Sei impazzita, Meyer? - la rimbeccò il più grande, strattonandola energicamente fino a far tornare i suoi occhi sul lavoro ancora incompiuto - Hai forse dimenticato cosa succede a chi si oppone alle punizioni dei voryer? Bambina mia, quei mostri non provano alcuna pietà per la nostra gente. Per cui torna al lavoro, senza indugiare.
Vi era rassegnazione, nella voce di Lea. Nessuno, tuttavia, poteva biasimarlo. A differenza di quella di sua figlia, la sua schiena era costellata da un numero assai vergognoso di cicatrici e i suoi occhi raccontavano meglio di centinaia di parole i quarant'anni di prigionia che quell'uomo portava sulle spalle, come un tremendo fardello. Vi fu una quarta frustrata, poi una quinta. Intanto, le iridi azzurre della piccola Meyer si riempirono di lacrime. Lea se ne accorse, ma dovette trattenere l'impulso di abbracciarla, certo che qualcuno tra i voryer, i guerrieri al servizio del Teyrant, il tiranno che governava su quelle terre, li stesse osservando. Cosa doveva significare, per un padre, ingoiare quel boccone amaro e trascurare la sua stessa bambina?
- Non è giusto, padre. Siamo come animali in cattività, costretti a lavorare duramente mentre quelle belve ci rubano tutto. Hanno dimezzato le nostre razioni, ucciso ogni neonato maschio nato negli ultimi mesi. Hanno preso il mio fratellino... oh, Meir... - strinse i pugni, incapace di soffocare le lacrime - Elohim! Ascolta la voce del tuo popolo... e liberaci dal giogo di Neferkaura!
- Non devi nominarlo, Meyer! E dimenticati del nostro Dio. Lui ha dimenticato noi. Ci ha abbandonati, ci ha lasciati soli e nudi di fronte alla potenza di Ubaste e Baset. Qui, in questa terra di lacrime e sangue, ha permesso ai suoi figli di erigere statue e palazzi in onore di divinità straniere. Noi non contiamo niente, Meyer. Quieta il tuo animo e torna al lavoro.
- La casa di Elohim siamo noi. Egli non abita in templi fatti da mano d'uomo. Disse a noi: "il cielo è il mio trono, e la terra lo sgabello dei miei piedi. Qual casa mi edificherete voi? Qual sarà il luogo del mio riposo? Non ha la mia mano fatte tutte queste cose?" - prese a dire a gran voce, alzandosi in piedi di fronte agli occhi attoniti degli schiavi presenti. Gli occhi di Lea erano colmi di terrore, quelli di sua figlia d'un fuoco indomabile che era frutto di una fede incrollabile. Si voltò verso il voryer, il quale intanto aveva fatto cadere la sua vittima con dei calci e stava continuando a frustrarla, deciso ad abbattere il suo spirito, oltre che il suo corpo. Poi gli corse incontro, chiudendo gli occhi avvolti dai lucciconi.
- NEL NOME DI ELOHIM, FERMA LA TUA MANO!
- E tu chi saresti, moscerino?
Il soldato, accortosi della presenza della più piccola, la fece cadere rovinosamente al suolo con un ceffone. Poi riavvolse la frusta in pochi secondi e, con immane crudeltà la fece schioccare su di lei, segnando per sempre la sua pelle immacolata e insozzando di sangue le sue ciocche dello stesso colore del grano. Una, due, tre, quattro volte. E il pianto, così come le urla disperate di Meyer, si levò in cielo, come richiesta d'aiuto ancora inascoltata da Elohim.
- MEYER!

Nella città degli shklaf, intanto, un paio di dozzine di soldati si muovevano in fretta, sgusciando fra le abitazioni fatte di fango e paglia. Le spade ricurve sguainate e insozzate dal sangue dei bambini nati in quelle case fatiscenti. Urla di terrore si levavano ancora alte, grida disperate partorite dal dolore inconsolabile di donne private della loro dignità di madri.
- Chiedimelo ancora una volta e giuro che ti taglio la gola, maledetto idiota. È il re Neferkaura che lo comanda! Egli ha visto in sogno il nostro impero rovesciato da un uomo proveniente dai popoli del nord. Ubaste e Baset gli hanno detto che la profezia non si sarebbe compiuta prima di trent'anni e l'hanno convinto a sterminare i figli maschi degli shklaf. Adesso va, la città bassa non è stata ancora purgata. - disse uno dei voryer ad un suo sottoposto, con un tono perentorio che non pareva ammettere repliche.
E proprio nella città bassa, una donna dalla carnagione scura percorreva le vie secondarie, seguita dalle figlie più grandi. Con il volto coperto da drappi di stoffa colorata, le tre donne si muovevano leste e con attenzione, evitando le ronde dei soldati. Tutte loro sapevano bene quale sorte le avrebbe attese, qualora fossero state sorprese a lasciare il centro abitato e a portare lontano da esso una cesta di foglie di palma intrecciate, con dentro un maschio di pochi mesi. Riuscirono tuttavia nell'intento e, dopo ore cariche d'ansia e tensione, giunsero sulla riva del fiume che tagliava il distretto di Tottori, dividendolo esattamente in due e rendendolo una terra prospera e fertile. Lì la più grande delle tre si spinse fin oltre il canneto, finché i suoi piedi non furono immersi nell'acqua placida del corso.

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- Dovrai essere forte, figlio mio. Vivrai lontano da tua madre, dalle tue sorelle e dal tuo popolo. Vorrei poterti stringere a me per sempre, ma loro... loro ti ucciderebbero, mio prediletto. E non posso permettere che accada. Tu discendi da Avraham, il padre dei popoli. Sei nato da un uomo al crepuscolo dei suoi giorni e da una donna resa sterile dagli anni. Sei un dono di Dio. E sei destinato a salvare tutti noi, piccolo mio. Se riuscirai nel tuo compito, prego Elohim affinché io possa rivederti ancora una volta, prima che la mia ora giunga.
E così, indugiando solo per un attimo, adagiò la culla sulla superficie cristallina dell'acqua. Intonò un canto amorevole, covando nel cuore la speranza che il bambino, pur divenendo grande, potesse un giorno riconoscere la sua voce. Era un pensiero stupido e irreale, ma troppo era il dolore nell'abbandonare quel pargolo dai boccoli castani - e altrettanta, ahimè, la consapevolezza di non avere altra scelta. Con fatica lasciò la presa sulla cesta, permettendo alla corrente di portarla via da quel luogo di morte e disperazione. Il canto, invece, non cessò. Avrebbe continuato a dar vita al suo amore anche in seguito, quando la culla sarebbe scomparsa tra le navi che solcavano quelle acque. Una lacrima le rigò il viso addolorato.
- Addio, Jekuthiel.

Iniziamo subito, a cazzo duro. Non mi hai mai avuto come master, ma mi conosci, ti evito quindi raccomandazioni inutili.

Il tuo primo post è libero, purché sia ambientato all'eremo dei gatti. Insomma, sapendo quanto siano importanti gli ultimi eventi di Hakurei per i nostri cari amici felini... divertiti, tutto qui. Per quanto riguarda Matatabi, sarò io a ruolarlo finché non sarà stabilizzato (e se, lo sarà).
Daje!


Edited by ¬BloodyRose. - 24/8/2018, 10:48
 
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view post Posted on 12/9/2018, 18:37     +1   -1
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Sembrava passata un'eternità da quando aveva lasciato quel luogo. Troppi eventi, troppi cambiamenti nel frattempo. Ogni giorno valeva per un anno. Lo sentiva.
Attraversò i piccoli insediamenti limitrofi, in cui il passo di ogni creatura risuonava sui ciottoli lucidi di pioggia e coperti dalle foglie della Foresta, attraversò quindi un ponte di pietra ai cui capi stava una figura forte e fiera che aveva imparato a temere - se non a detestare - benchè non l'avesse mai incontrata di presenza, e risalì il sentiero sotto i rami gocciolanti dei grandi alberi spogliati dall'inverno, finchè non si trovò davanti a quella scalinata, adorna anch'essa di statue, ma che poteva adesso definire sue amiche.
Quando giunse agli ultimi gradini se lo ritrovò davanti, nella sua antica e ormai decaduta magnificenza. La pioggia era cessata, e i gatti apparvero nel cortile come generati dalla nebbia, come demoniache creature di un altro mondo che lo fissavano con occhi curiosi e distanti. Quando giunse alle soglie del Tempio scorse Kuroneko in lontananza, provò a indirizzarle un cauto saluto, ma lei non lo notò o fece finta di non notarlo. Oltre la soglia era tutto esattamente identico -che stupido, pensò, perchè non doveva essere altrimenti? Che cosa mai poteva significare una sua breve assenza, in un luogo la cui origine risaliva ai tempi del mito.
Solo perchè lui sentiva il tempo accelerato, non poteva certo sperare che il mondo si conformasse a quel suo stato d'animo, come un corpo massivo attira a sè i pianeti e gli altri corpi e tutte le altre stelle.
"Mi aspettavo a breve un tuo ritorno."
Non lo sorprese quella voce, nonostante fosse sovrappensiero. Era qualcosa che gli capitava sempre più di rado, poteva constatare. Che stesse migliorando?
"Salve, giovane eremita."
"Sousui-sama."
O che stesse ormai si stesse sempre più abituando a quelle sue visioni e a quello modo d'essere allucinato?
Rialzò il capo dopo averlo salutato, e lo vedeva ancora lì, immobile come una statua, e gli ritornò in mente la prima volta in cui lo vide. Non lo vedeva così da allora probabilmente, o almeno così gli parve in quel momento.
Con quel sorriso enigmatico, appena accennato, pacato e sornione. Rassicurante e imperscrutabile.
"Se posso chiedervelo, per quale ragione ve lo attendevate?"
Come se non potesse immaginare la risposta. Sembrò pensarci un po', ma forse era più corretto dire che quella risposta la fece semplicemente attendere.
"Alcune visioni della Grande Kokoro. Alcune sue parole."
Gli si avvicinò, sotto il lento toc toc del bastone.
"E non per ultimo quanto ha scosso il Continente in questi ultimi tempi", e gli sorrise.
Annuì, e si limitò a quello. Non sapeva cosa rispondere. Si morse leggermente il labbro, ma si fermò subito.
" - Non me la sono vista molto bene."
"Sì, possiamo immaginarcelo."
Ci pensò ancora.
"Pensavo di poter contare sull'aiuto dell'Eremo... qualora le circostanze si fossero rivelate favorevoli."
"Sì, era così."
Silenzio.
"Con tutto il rispetto, Grande Sousui, ma qui mi è sembrato - di essere stato lanciato un po' allo sbaraglio."
Gli parve leggermente turbato.
"Perchè mai ti viene da pensare qualcosa di simile?"
Attese.
"Non avevi detto che il Fantasma Vivente era meglio perderlo che averlo tra noi?"
"Certamente."
Ci pensò ancora un po'.
" - Nulla, mi perdoni."
Lo vide sorridere, ancora più intensamente.
"A volte, in quanto personaggi di una favola al di là della nostra comprensione, la solitudine può essere la migliore compagnia nel completamento del disegno. Ed un breve ritiro reclama un dolce ritorno.
Come poi è stato.
"
Si fissarono a lungo negli occhi, e intuì quanto stesse comprendendo del mattino di quel giorno, e dei giorni che lo avevano preceduto.






In medias res





Una corsa a perdifiato.
Cacciato.
Braccato.
Non c'è via di scampo.
Nessun rifugio.
L'unico modo per scappare sarebbe riuscire a volare, come aveva visto poco prima in quello specchio, ma a lui mancano le ali.
Sente qualcosa afferrarlo, dà un graffio istintivamente a chiunque stia frenando la sua corsa, riesce a divincolarsi e così continua perchè la sente ancora alle calcagna.

"Sul palcoscenico c'è posto per un solo danzatore. Uno soltanto."

Quelle parole risuonarono come giungessero da un altro mondo e un altro tempo. Nella sua corsa scorse una figura alla sua destra, come lo seguisse. Come stesse sorgendo e reimmergendosi in un mare di tenebre.

Un tintinnio. Un oggetto davanti a lui. Frenò la sua corsa per esaminarlo - forse incautamente, ma perchè non fermarsi? era così bella!
Un oggetto metallico. Tondeggiante. Una moneta. Testa.
Un'ombra sulla moneta. Alzò lo sguardo d'istinto. Un essere dei cieli indefinito, che volava lontano. Si abbassò, cercando di nascondersi in quel luogo privo di rifugi finchè non lo vide allontanarsi, tra le nuvole di un Cielo oscuro e indefinito, e quando fu ormai invisibile si rese conto di essere in una taverna di qualche lurido paese a lui sconosciuto, colma di figuri sbrindellati, puzzolenti, adorni come cannibali di parti del corpo umano. Alto, sopra tutti, torreggiava una figura colossale, come se stesse danzando.
Si avvicinò al bancone della locanda, ma gli parve come se stesse facendo entrambe le cose allo stesso tempo, che fosse sul bancone e che stesse danzando nudo lì, sopra tutta quella barbarica orda demoniaca.
"Io ti dico questo" lo sentì dire.
Solo allora si accorse di quanto fosse grosso. Enorme, bianco, glabro. Come un infante smisurato.
"A mano a mano che la guerra verrà disonorata e la sua nobiltà messa in discussione, quegli uomini d'onore che riconoscono la santità del sangue verranno esclusi dalla danza, che è un diritto del guerriero, e di conseguenza la danza diverrà una falsa danza e i danzatori falsi danzatori. Eppure ci sarà sempre un vero danzatore, e sei in grado di indovinare chi possa essere quell'uno?"
Delle parole confuse alle sue spalle. Come le stesse pronunciando qualcun altro di cui non poteva avere contezza.
"Le tue parole sono più vere di quanto tu possa immaginare. Ma io te lo dirò.

Solo l'uomo che si sia interamente offerto al sangue della guerra, che sia sceso fino in fondo al pozzo e abbia visto l'Orrore tutto intorno a sè e abbia infine imparato che quell'Orrore parla all'intimo del suo cuore, solo quest'uomo può danzare.

Tutti gli altri sono destinati a una notte eterna e senza nome.
"

Sentì ogni cosa crollare, capitolare, mentre qualcosa lo serrava in una morsa senza scampo.

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Un'immagine migliore, quella sella sua stanza, del suo letto, di Meiousei che lo fissava in quel suo risveglio come sempre affannoso. Una meta cara quel risveglio, come lo era ogni notte
Un continuo risveglio che tuttavia non portava più sollievo dal sonno che fugava. Quei mesi, quelle apparizioni, quelle voci e profezie seguite dagli atti che sfidavano ogni ragione. Simili istigazioni soprannaturali non potevano essere male, non potevano essere bene.
Strane apparivano, senza dubbio, non potevano piacergli. Che fossero figlie del male? Ma no, quale male!
E dov'era il male? S'erano male perchè iniziavano con un simile principio di verità portata a compimento?
Ma se davvero erano bene, perchè quelle visioni solo immaginate lo sconvolgevan tanto da opprimere ogni sua funzione della mente, alchè nulla è tranne ciò che non è? Paure reali vincibili solo da fantasie paurose, la cui immagine orrenda fa drizzare i capelli e smuove il cuore a battere il costato in modo innaturale?

Così si alzò prima dell'alba, fece fagotto e si incamminò non appena ci fu abbastanza luce per vedere. All'alba le montagne frastagliate a sud-est, dove sorgeva Kawagoro, erano di un azzurro puro, e dappertutto gli uccelli cinguettavano, e il sole nascente sorprese la luna a ovest, cosicchè lungo il suo cammino li vide fronteggiarsi l'uno di fronte all'altra ai due capi della terra, il sole di un bianco incandescente e la luna una sua pallida replica, come segno di quelle ancora labili e oscure materie già in essere nella mente del creatore, come le estremità di un unico tubo la cui curva si perdeva nello spazio e i cui sbocchi bruciavano mondi e abissi sperduti tra il nulla e l'addio.






" - Vedi che non c'era alcun bisogno del nostro intervento?"
Non gli sembrò sorpreso. Solo soddisfatto. Una soddisfazione enigmatica, come ogni suo gesto, che non gli lasciava intuire quanto in effetti sapesse, e soprattutto quanto effettivamente avesse mai saputo in principio.
" - Bravo, Immortale."
Si girò verso il corridoio e gli fece cenno di seguirlo. Lui rimase fermo.
" - Sousui-sama."
Lo vide fermarsi, e dopo un po' rigirarsi flemmatico.
"E' stato un caso."
Sorrise.
"Proprio tu ormai non dovresti più porre in causa qualcosa di simile tanto alla leggera."
"No, mi sono mal espresso. Non so cosa fare. E' un corpo estraneo a me. E ostile. Pericoloso. Ha più volte rimarcato di volermi annullare, di voler prendere possesso del mio corpo, e - non so come potrò impedirglielo col passare del tempo."
Silenzio.
"La via retta e la via tortuosa sono una cosa sola. E ora che sei qui, cosa contano gli anni trascorsi dal nostro primo incontro, o i mesi che ti separano dal tuo primo incontro col Nekomata? Com'è impossibile che i personaggi di una favola si ribellino al loro autore, così è impossibile per noi opporsi al flusso degli eventi. Te lo dissi già una volta, non dimenticarlo mai. Questo abisso selvaggio che ci è dato, in cui il grembo è anche tomba, non è né di acqua, né terra, né aria, né fuoco, ma tutti questi al concepimento mischiati. Lo hai già visto, no? Confusamente, e quindi sempre in conflitto, finché qualcuno non li sfrutti. Finchè qualcuno non faccia sì che da queste oscure materie venga fuori un nuovo palpito. Una creazione.
E tuttavia, in questo abisso selvaggio qualcun altro di più astuto e ingannevole sta sempre ai suoi margini. E osserva.
Ponderando le sue traversate...

Ma, forse, esiste a questo mondo chi possa non dico invertire il corso dei flussi, ma quantomeno perturbarne la superficie.

Non sei d'accordo... Immortale?
"




Dai tempi in cui stava a leggere sotto quella Titanica sulla collina, gli tornò in mente quell'immagine dei territori a nord del Paese della Terra. Un'immagine in bianco e nero, una vasta distesa desertica con milioni di carcasse di animali disseminate a perdita d'occhio. Il commento recitava fossero otto milioni, perchè quello era il numero di pelli che giungevano da nord al Continente. Due anni dopo un gruppo di cacciatori raccontò che stette sei settimane in quei territori di caccia setacciandolo da cima a fondo. Sei settimane. Alla fine trovarono un branco di otto bestie e nulla più. Erano sparite. Tutte quelle che gli dei hanno creato, diceva il cacciatore, sono sparite come se non fossero mai esistite.

Le faville del focolare volavano via col vento, immergendosi nella bruma che copriva ogni angolo del Tempio. Intorno a loro, ogni cosa era muta. Lontano dai fuochi faceva freddo, e la notte era chiara e le stelle cadevano. Si mise addosso Armonia, e si chiese se esistessero davvero altri mondi oltre a questo, o se questo fosse l'unico.


Un po' in ritardo, diciamo... si comincia!


Edited by Jöns - 12/9/2018, 19:52
 
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Eremo dei Gatti.
21 Febbraio 249.

Nel buio, qualche passo si mosse in sua direzione. Con la coda dell'occhio, il giovane eremita riuscì a vedere delle zampe sottili calpestare il marmo del tempio, finché la figura felina non fu abbastanza vicina da essere investita dalla luce emessa dal fuoco scoppiettante. Era Sousui - e chissà, magari la sua visita avrebbe anche potuto non stupirlo. Erano rare, dopotutto, le occasioni in cui l'anziano gatto rimaneva distante dall'approfittare, in un modo o nell'altro, della presenza del custode del patto fra la loro razza e quella degli uomini.
- C'è qualcos'altro che vorrei chiederti, giovane eremita. In verità, c'era qualcosa - o meglio, qualcuno - a cui mi riferivo, quando parlavo di chi rimane ai margini dell'abisso selvaggio che chiamiamo mondo. - cominciò con tono serio, passandosi una zampa sul folto pelo che ricadeva al di sotto dei baffi - Ma prima, lascia che ti racconti una storia.
Si sistemò più vicino allo shinobi, lasciando che i lembi del suo sontuoso kimono fossero ben lontani dal focolare vivo, in modo da scongiurare piacevoli incidenti. Il suo sguardo lasciava trapelare poco, ma una cosa Hakurei avrebbe potuto facilmente comprenderla. Sousui-sama intendeva affidargli un qualche incarico, anche se era ancora troppo presto per azzardare ad indovinare di cosa potesse trattarsi.
- Quarant'anni fa, in questo Tempio vivevano due gemelli felini, fratello e sorella. Midori e Aoi, questi erano i loro nomi. Erano gatti ninja d'incredibile valore, oltre che creature estremamente perspicaci e utile alla nostra causa. Per più di vent'anni sono stati impiegati nelle faccende più disparate, ogni volta con risultati impeccabili. Ma l'ambizione... sì, deve essere stata quella a portarceli via. Stufi di essere al servizio di felini ben più anziani e capaci, hanno deciso di tradire la nostra razza nel peggiore dei modi, insozzando il sacro Tempio di sangue e saccheggiando alcuni dei suoi tesori più preziosi.
Nel raccontare del tradimento di Midori e Aoi, Sousui era stato tutt'altro che prodigo di particolari. Forse avrebbe scucito qualche parola in più, qualora Hakurei glielo avesse richiesto esplicitamente, eppure quel silenzio fece intendere qualcosa di chiaro. Quella storia doveva riguardarlo personalmente, in qualche modo. Era strano, infatti, che la sua espressione sorniona venisse rimpiazzato da qualcos'altro - in quel caso, il nitido sentore di voler tacere su alcuni frammenti di quella vicenda.
- Come potrai capire, la nostra razza desidera risolvere la questione nella maniera più esemplare.
Omicidio. Come poteva essere altrimenti, del resto?
- Per decenni abbiamo ignorato i loro spostamenti, ma di recente qualcosa ha turbato i sogni di Kokoro-sama. Il nome di una nazione divenuta potente al sud delle terre degli shinobi, Sakyū... e quello che i traditori hanno scelto per coprire l'onta dello scempio commesso. Ubaste e Baset.
In quel preciso istante, una brezza leggera accarezzò il viso del chunin della Foglia, facendo danzare al tempo stesso le fiamme del focolare e le ombre che esso proiettava sul muso dell'anziano felino. Era una situazione assai particolare e i pochi dettagli di cui disponevano provenivano unicamente dalle visioni di Kokoro. Hakurei avrebbe sicuramente avrebbe avuto dubbi in merito alla faccenda, di questo ne era perfettamente consapevole. Era altrettanto sicuro, tuttavia, che il più piccolo non si sarebbe tirato indietro, non dopo aver accettato da tempo il peso delle responsabilità che gravavano sulle sue spalle. Ripensando a quanto accaduto non molto tempo addietro, quando gli aveva parlato del Nekomata, il sorriso sotto i suoi baffi si fece ancora più affilato.
- Non molto tempo fa, ti chiesi di rinnovare la fedeltà nei confronti di questo Tempio. Fedeltà che non posso non notare e riconoscere, salda e ardente. No, Hakurei, non intendo chiederti lo stesso, questa volta. Ti chiedo soltanto, in qualità di eremita, di far sì che chi, al contrario, ha manifestato solo disprezzo ed egoismo nei nostri confronti riceva la dovuta punizione. - e in quel modo avrebbe concluso, attendendo il responso del più giovane.

 
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view post Posted on 21/9/2018, 09:08     +1   -1
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Il vento che si era sollevato portava con sè scabre pietruzze del Tempio in rovina, e lo affrontò curvandosi leggermente e parandosi il volto con un cenno leggero. Sembrò quasi un'azione calcolata, poichè si mise a pensare su quanto gli fosse stato riferito.
"Mi state chiedendo di ucciderli?"
Una constatazione - più che una domanda - neutra, asettica. Come se rientrasse nell'ordinario ventaglio delle possibilità che gli veniva offerto dagli spettri che si muovevano tra le ombre degli eventi di là da venire.
"Quale punizione sceglieresti per chi ha macchiato queste pietre del sangue dei suoi fratelli, giovane eremita?"
Quell'assottigliarsi del viso, degli occhi, in maniera appena percettibile eppure così eloquente, non lasciava spazio al dubbio. L'Eremo voleva la sua rivalsa. Voleva far sì - o meglio, pensò, voleva finalmente far capire che i tempi dell'ignavia e dell'inettitudine erano finiti. Voleva ricordare ai suoi nemici, e non solo, quanto valore avesse per loro il portare rispetto; che, in un modo o nell'altro, per quanto tempo potesse passare, prima o poi avrebbero pagato sempre i loro debiti.
" - capisco."
Non che avesse paura, si diceva, di portare la morta - i primi uomini che aveva ucciso, quei tre sgherri del Kyo Dan, gli avevano lasciato meno tormento di quanto avesse mai pensato prima; anzi, non gliene avevano lasciato proprio.
Era davvero così freddo, cinico, e spietato?
Puttanate. Cos'altro avrebbe dovuto fare, quando chi gli si parava di fronte stava attentando alla sua vita? Si era semplicemente difeso, nulla più. Un'equazione lineare, con un'unica soluzione ben definita. E forse ciò era collegato alla sua concezione generale della morte - di come lui stesso non la guardasse con poi tanto timore ormai ne era consapevole, lo aveva dimostrato a se stesso in molte occasioni. A questo mondo bisogna sopportare molte cose che certamente fanno del capestro, e vivere un paio d'anni in più o in meno ha poca importanza.
"Pensa che loro potrebbero indire una nuova guerra civile in futuro? Se ho ben supposto nel dire che abbiano imbandito una guerra civile."
E, soprattutto, ma questo non riuscì a razionalizzarlo adeguatamente, quanto poteva essere grande la superiorità di un uomo che si è liberato dal desiderio di voler a ogni costo continuare a vivere?
"O pensa... possano rappresentare suoi possibili alleati?"
Lo vide sempre impassibile, come ponderasse sugli scenari futuri attraverso sensi e congetture e una logica a lui sconosciuti.
"Un massacro spietato non può essere considerato una guerra civile, giovane eremita. Ciò, tuttavia, non esclude che possa trovare in queste terre straniere il supporto necessario per acquisire definitivamente il potere. Dobbiamo essere lungimiranti ed agire con largo anticipo."
Annuì, e mentre ci pensava ancora dentro di sè si fece largo un rigagnolo di stupore. Era incredibile come fossero così simili agli esseri umani, pur ovviamente con le dovute proporzioni. Ammesso, infatti, che nella storia non vi siano regressi volontari, l'umanità somigliava sempre a un uomo spinto innanzi da un impulso misterioso e sinistro, senza ritorno e senza meta, e questa ai suoi occhi non poteva che essere una condizione molto curiosa, e così la osservava ormai da tempo. Ancor più curioso era trovare, in quel luogo misterioso e leggendario, quelle sorprendenti analogie.
"Allora devo aver interpretato male, perdonatemi. Mi chiedo cosa possa aver spinto a tanto. Una scelleratezza che non ha senso. Qualora la presa del potere fosse davvero il loro intento. Che senso ha far strage totale in un posto che si vuole controllare?"
Quella disposizione dell'animo, così occhiuta per ciò che era più vicino e così cieca per le cose nel loro insieme, così priva di lungimiranza, bastava a nutrire un accesso di vanagloria? Possibile. Ma improbabile. A meno che questi Midori e Aoi non fossero dei barbari selvaggi in piena balia delle loro emozioni. Chiunque, anche la più bassa delle bestie se ci pensava, esercita assai irrazionalmente e dunque nel modo più infruttuoso il mestiere che gli è stato dato in sorte se non lo pratica secondo un qualche criterio logico e di scienza. Quelle vie luminose e di salvezza che sono le uniche vie per tentare di districarsi in quest'universo tortuoso. Oltre all'uomo privo di paura della morte, colui che si libera dai vincoli bestiali della propria sfera emotiva e emozionale è in grado di levarsi sopra il Ragno scapestrato di Malkhut, fino alle sfere superiori.
Come gli disse allora lo stesso Macellaio - anche se non gli sovvenne in quel momento -, l'uomo che può fare a meno di ogni cosa diventa libero dalla paura.
"Quali generi di tesori hanno trafugato?" gli venne naturalmente da chiedere, ripensando alle parole di Sousui.
"Non era il potere il loro chiodo fisso. Non un potere che possa essere esercitato politicamente, almeno. I tesori dell'eremo che hanno rubato - per fortuna, soltanto in minima parte - riguardano rotoli contenenti segreti sulle arti tramandate dalla nostra razza alla vostra. Jutsu di inestimabile potenza che, nelle mani sbagliate, possono essere motivo di disgrazia per questo tempio... e non solo. Non credo possano essere entrati con lui e proprio per questo, giovane eremita, dobbiamo assicurarci che le loro impronte vengano cancellate prima che il loro destino in quelle terre, qualsiasi esso sia, si estenda sin qui."
Piuttosto lineare. Piuttosto comprensibile. Non sempre la forza coesiva che spinge gli esseri a vivere in comunità era sufficiente a vincere gli impulsi violenti e distruttivi della loro vanagloria - ed era così, in fondo, che era ogni vita in comunità: tutta di attesa e di vivo rapporto reciproco che - anche dove rude e violento - era contornato da un'ombra d'irrealtà. Era davvero incredibile come fossero più simili agli esseri umani di quanto avesse mai pensato. Anzi, aveva torto: più volte all'Eremo lo aveva appurato, e senza contare i recenti eventi del suo incontro con Matatabi, il gran signore della vanagloria. Pronto adesso da un momento all'altro a restituirgli il colpo. Pagava i suoi debiti anche lui in fondo, di questo gliene doveva dare atto. Sorrise appena e in modo amaro.
"Non posso non concordare. Farò del mio meglio, e... spero riuscirò ad agire con fermezza" e fece un lieve inchino.
"Sono sicuro sarà così, Hakurei."
Prima di avviarsi, vide la nuvola di fumo evanescente che circondava il Tempio muoversi vorticosa, e al suo interno sullo sfondo vibravano silhouette sinistre che aveva imparato a riconoscere come una parte di sè, proprio come aveva detto a quello spadaccino, Shintou Agiwara. Quando si addentrò nell'ombra sempre più fitta, sotto gli occhi attenti, cauti e curiosi, sentì che, insieme a lui, marciavano silenti tutte le sagome mortali che avevano perduto la vita in quel luogo.
 
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view post Posted on 25/9/2018, 19:54     +1   -1
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KIxfM9o

Così, ebbe inizio il suo viaggio.
Per nove giorni, i suoi sandali calpestarono i chilometri che lo separavano dalla sua meta. Le indicazioni di Sousui erano state assai scarne in realtà e del resto, essendo frutto di una visione offuscata di Kokoro, non c'era da stupirsi. Sakyū, una potente nazione a sud del continente degli shinobi. Tanto bastò al giovane Hakurei affinché il suo cammino procedesse sicuro attraverso le terre prospere del Paese del Fuoco e, poi, in mezzo a quelle più aride e inospitali del Vento. Suo malgrado, si era accorto che le dolci quanto letali dune del deserto si estendevano anche oltre i confini conosciuti all'uomo, per intere miglia. E così aveva camminato, finché dinanzi ai suoi occhi era apparsa una montagna. Era immensa, talmente alta da sembrare capace di sfiorare il sole rovente, uno spettacolo della natura capace di far sentire minuscolo anche il più potente dei guerrieri. Un viaggio di fortuna proprio verso quella vetta, questo lo aveva atteso - e in fondo, poteva essere altrimenti? Non vi era altro modo oltre la parsimonia e l'affidarsi alla sorte, per affrontare un percorso così impervio. La sete e i morsi della fame erano nemici ben più temibili del caldo torrido che aveva messo a dura prova il suo fisico, ma per un ninja quelli erano sacrifici tollerabili - pericoli per i quali era valsa la pena spendere attenzione ed energie, durante i corsi in accademia. Il fato, tuttavia, aveva premiato la sua dedizione, permettendogli di giungere in prossimità di un fiume. Era forse il corso d'acqua più imponente che avesse mai visto, le cui sponde erano separate da un chilometro, all'incirca. Com'era lecito aspettarsi, nei suoi pressi la vegetazione prosperava - e con essa la selvaggina, per l'enorme gioia del suo stomaco! Seguendo il percorso tracciato dall'acqua verso sud, in meno di ventiquattr'ore di marcia aveva finalmente trovato i primi segni di... civilizzazione, anche se era dura definirla tale.

Ad attenderlo, avrebbe trovato costruzioni che non avrebbe nemmeno sognato di vedere. Si trattava di edifici in legno e paglia, le quali sorgevano su delle impalcature sospese sul pelo dell'acqua. Il nucleo di casa in cui s'imbatté non raggiungeva i venti elementi, eppure molte erano le gambe che calpestavano la sabbia di quella piccola oasi. Perlopiù bambini - il che era sintomo di enorme fertilità - e poi, in numero decisamente maggiore, animali da cortile come oche, galline, pecore e qualche maiale. Quella gente viveva in maniera umile, sopravvivendo grazie ai frutti della terra e al rendimento dell'allevamento, oltre che dell'agricoltura. Tuttavia, per quanto misere fossero le loro condizioni rispetto agli agi che un abitante del Fuoco poteva conoscere, l'atmosfera che Hakurei avrebbe respirato era qualcosa di talmente armonico da risultare quasi sconosciuta. Vi era pace e serenità, qualcosa di molto raro per chi, negli ultimi mesi, aveva vissuto il terrore e la distruzione che le Bestie Codate avevano portato nel continente.
Nel vederlo nei pressi dell'oasi, un uomo lo avrebbe avvicinato. Sebbene le rughe del suo volto e i capelli bianchi parlassero chiaramente circa la sua età, pareva in salute, fatto salvo per l'andatura claudicante che comunque rimaneva stabile, grazie ad un solido bastone da passeggio. Lo avrebbe squadrato bene per qualche secondo, come a voler capire da dove provenisse - perché era chiaro non fosse di quelle parti, l'abbigliamento in fondo era ben più elaborato dei quattro stracci che la sua gente portava addosso. Tuttavia non poté trovare risposta - e come avrebbe potuto farlo, un uomo che probabilmente in quelle terre aride aveva speso la sua intera vita? Così, deciso a togliersi comunque il dubbio, si decise a farsi avanti.
- Da dove provieni, ragazzo? - gli avrebbe dunque chiesto saltando qualsiasi tipo di convenevole, in una sorta di dialetto proveniente dalla lingua comune che, tuttavia, rimaneva molto comprensibile.

 
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view post Posted on 2/10/2018, 21:33     +1   -1
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Si tiene alla larga dalle strade principali per paura di imboscate, come aveva sempre fatto ogni volta che si era inoltrato fuori dai confini del Fuoco.
Si è lasciato alle spalle il paese dei cedri e dei salici, e il sole della sera tramontava davanti ai suoi occhi dietro un bassopiano infinito. Il buio calò presto, come un fulmine a ciel sereno, e attorno a lui sentiva gemere le piante e le erbacce sotto i freddi venti dell'inverno.
Smonta le sue cose e si accampa in quella piana già meno rigogliosa, spettro di ciò che lo attende e monta i fuochi attorno al perimetro che ha battezzato. I piccoli lupi della prateria ululavano incessanti. Sopra di lui il cielo è una fontana di stelle con poco spazio nero, stelle che tracciano archi dolorosi dalle loro origini nel fuoco e nella luce ai loro destini nella polvere e nel nulla, tragitti arcuati di cui quell'immagine altro non è che un loro antico fotogramma, come un monito imperituro.
L'alba lo sorprende nel suo letto erboso e il sole che sorge a est ha il colore dell'acciaio. Pochi minuti ed è di nuovo in marcia, con la sua ombra che si allunga per miglia a sud-ovest. Quando ritrovò dopo quasi un anno le sabbie del Vento si avvolse nel suo scialle bianco che si era saggiamente portato in sacca, e proseguì nel deserto come un miraggio, un lattiginoso fantasma tremolante nell'immensità incandescente. Un déjà-vu vecchio di appena due mesi, quando si inoltrò in quel deserto freddo, bianco, altrettanto letale.
Giunse ad Abducalsar, e lì trovò ristoro per due giorni. Ritrovò Jiroubou, si salutarono fraternamente e si scambiarono gli ultimi resoconti, di cui lui omise un dettaglio fondamentale com'era ovvio. Cercò informazioni nella grande biblioteca della Saizen a proposito di ogni cosa gli passasse per la testa circa l'incarico che lo attendeva, ma com'era ovvio per un novizio come lui le sale a sua disposizione non potevano che essere limitate. Furono curiosi quei due giorni. Da tempo non si dedicava così totalmente ai libri, allo studio della pagina scritta, all'acquisizione di antiche memorie trascritte. Era sembrato come un tornare indietro nel tempo, un tempo più spensierato e in cui ogni evento era un rischio senza esperienza, perchè racchiuso in quelle scure prigioni di inchiostro e vivo soltanto nei vividi centri dell'immaginazione.
Quando ripartì seguì il consiglio di Jiroubou e si procurò un cappello di paglia da mettere sopra al suo velo ora ingiallito dal soffio del deserto, e così continuò il suo viaggio con le sembianze di uno spaventapasseri giunto alla vita, uscito dal giardino dove teneva alla larga gli uccellacci per via di qualche incomprensibile miracolo.
Al calare del sole del sesto giorno scorge una spira di fumo salire obliqua tra le dune, e prima che facesse buio raggiunse un'oasi mal ridotta e si fermò davanti alla porta di un vecchio, vero anacoreta annidato lì come un bradipo preistorico. Eremita solitario, mezzo matto, gli occhi orlati di rosso come chiusi in gabbia da roventi fili metallici. Un corpo ancora saldo, massiccio, temprato da quella forgia. Era lì fermo, e lo scrutava con quei suoi occhietti spiritati e incandescenti. Soffiava da qualche ora un vento tagliente, e vide le vesti stracciate che gli svolazzavano attorno come brandelli di una qualche membrana atavica che riconduceva più in là nei pressi del suo fondamento, e così il suo mantello ormai colmo di sabbia lo avvolgeva contorcendosi disordinato come pallide fiamme divampanti, o ciuffi di pelliccia risalenti alle epoche in cui si aggirava per lande glaciali come un solitario predatore delle tenebre.
"Ho visto il vostro fumo" gli disse dopo un po'. "Ho pensato che magari avreste potuto darmi un sorso d'acqua. Vago ininterrottamente da due giorni nel deserto."
Il vecchio eremita si graffiò la testa sudicia. Poi lo vide entrare nella capanna e lo seguì. Buio, l'odore di terra a cui si stava disabituando. Un mucchio di pelli in un angolo. Vide il vecchio indicare un secchio tra il sudiciume, così lui si avvicinò, si piegò sul secchio, prese il cocco vuoto al suo interne e bevve. L'acqua aveva una lasciata di zolfo. Continuò a bere. L'eremita continuava a battersi il petto col pugno emettendo suoni baritonali e dardeggiando gli occhi da ogni parte.
"La ringrazio. C'è un pozzo qua vicino?"
Il vecchio non rispose e continuò come se non fosse stato interpellato.
"Vorrei sdebitarmi portandovi un po' d'acqua fresca. Basta che mi diciate dove sta."
"Sulla collina" rispose improvvisamente, senza interrompere il suo mantra: "Segui il sentiero."
Allora si alzò e lanciò uno sguardo oltre la porta.
"E' troppo buio, non riesco a vederlo."
"Non tutti riescono a vederlo. Benché chiunque possa vederlo. E' un sentiero ben marcato. Ogni vero sentiero lo è, e quelli che non lo sono non sono altro che falsi sentieri. Segui i tuoi passi, sempre. Prendi nota di loro. Segui il sentiero. Io non posso venire."
Uscì nel vento e seguì il sentiero fino alla collinetta dell'oasi. In cima, un buco nella sabbia umida e sassi ammassati sui lembi del lenzuolo di pelli essiccate per coprirlo.
Tirò su due volte il secchio, poi ricoprì il pozzo e lo portò pieno fino alla capanna.
"Grazie per l'acqua" disse all'eremita lasciandogli il secchio pieno sulla soglia, e la figura scura dell'eremita sbucò improvvisamente.
"Fermati qui."
" - Va bene."
"No, intendo che è meglio se ti fermi qui stanotte. Sta arrivando una tempesta."
"Davvero?"
"Sì, e ci azzecco sempre."
Buttò tutto dentro la capanna. Lì il vecchio aveva acceso un fuoco, l'unica fonte di luce lì dentro, e li vide accovacciarsi di fronte alla fiamma come un sarto col suo fuso.
"Chiudi quella porta prima che voliamo tutti via" gli disse il vecchio prima che potesse sedersi anche lui.
Chiuse la porta facendo cigolare gli assi sui cardini di cuoio e fissandola con il chiavistello di cuoio e infine lo raggiunse davanti al fuoco.
"Ti sei perso scommetto" gli disse l'eremita.
"No, aveva ragione, il sentiero si individuava bene."
"No no, intendo dire in generale, che ti sei perduto per arrivare qui. E' stata una tempesta di sabbia come quella che sta arrivando? Ti hanno assalito dei briganti?"
Ci pensò un po'.
"Sì. A ben pensarci, forse a un certo punto, da qualche parte, ho perso la strada."
"Lo sapevo, ci avrei scommesso."
"Da quanto è qui?"
"Chi? E qui dove?"
"Intendo da quanto lei è qui, in questo posto?" e gli fece cenno con l'indice a terra, ma al contempo era come se indicasse le il fuoco scoppiettante davanti a lui.
Il vecchio non rispose. Prese il naso tra il pollice e l'indice e soffio via due fili di moccio sul pavimento, poi si asciugò le mani nella cucitura dei pantaloni sudici.
"Vengo da Nami no Kuni, nel Continente a nord. Ero uno schiavista, lo dico senza problemi. Facevo dei bei soldi. Non mi hanno mai beccato. Prendevo schiavi di ogni tipo - neri, bianchi, donne, bambini. Poi mi ha preso la nausea, tutto qui. Nausea dei neri. Se non li hai mai visti, se non sei mai stato a Kumo, non puoi capire di che parlo. Aspetta che ti faccio vedere una cosa."
Lo vide voltarsi e rovistare tra le pelli alle sue spalle, coi radi capelli sudici della nuca che luccicavano alla luce delle fiamme, e quando si girò gli allungò dall'altro capo delle fiamme un piccolo oggetto scuro. Lo prese e se lo girò tra le mani. Era il cuore di un uomo, essiccato e annerito. Lo restituì all'eremita, e questi lo riprese e lo cullò come a soppesarlo.
"Un uomo molto saggio che incontrai una volta mi disse che ci sono quattro cose che possono distruggere il mondo: le donne, l'alcool, i soldi e i kumani. Specie se neri."
All'esterno si sentivano gli ululati della tempesta in procinto di esplodere, e i rumori dei primi granelli di polvere che battevano contro le assi in pendio.
"Mi è costato cinquanta ryo quest'affare" disse rimettendo a posto il cuore.
"Cinquanta ryo?"
"Già. Era quella la somma che chiedevano per quel figlio di puttana pellenera che se lo portava dentro."
Rimasero lì seduti per molto tempo al calore del fuoco, e il vecchio mise a riscaldare un paiolo dove c'erano i resti di una magra lepre del deserto sepolti in una gelatina di grasso fredda e ingrommati di muffa azzurrina.
"Non è molto, ma faremo le parti."
"La ringrazio davvero."
"Così ti sei perduto, eh?"
Avvertì una punta di sarcasmo. Non rispose.
"Dura è la via del trasgressore. Gli dei hanno creato il mondo, ma non l'hanno fatto su misura per tutti."
"Non credo proprio che pensino a me o a quello che faccio."
"Già. Ma dove può arrivare un uomo con le sue fantasie?"
Una domanda sottile. Non potè negare che lo stuzzicò.
"Non saprei con certezza. Un po' ovunque, credo."
"Ma può avere la certezza che le sue fantasie siano reali?"
"No, sennò che fantasie sarebbero?"
"Eppure potrebbero comunque essere reali. E' un mistero, insomma. Un uomo non può mai conoscere la propria mente perchè la mente è la sola cosa con cui possa conoscere. Potrebbe conoscere il proprio cuore, ma non vuole. E fa bene. Meglio non guardarci dentro. Mai guardare dentro al proprio cuore, se non si è disposti a pagarne il peso. E anche qualora se ne fosse pronti, tutti gli uomini che conosco che sono riusciti a sopportare una conoscenza simile non sono più stati in grado di potersi ancora definire uomini. Uomini intesi come creature che percorrono una via benedetta dagli dei."
Lo fissava con occhi sottili e attenti, sinceramente interessati, quasi rapiti da quelle parole che gli suonavano familiari, mentre il vecchio gli piantava i suoi occhi spiritati e ancor più arrossati dal fumo del braciere.
"Non che in fondo gli uomini siano quel genere di creature. La cattiveria la trovi anche nell'ultima delle creature, ma quando gli dei hanno creato l'uomo dovevano avere dei demoni accanto. O magari dei e demoni sono la stessa cosa. Chi lo sa, forse ho detto una bestemmia. Ci credi agli dei e ai demoni?"
"Non so."
"Credici, senti a me."
Stettero lì a mangiare quell'intruglio, mentre entrambi sedevano con un orecchio teso alle urla del deserto fuori dalla capanna.
"Non hai del tabacco per caso?" gli chiese il vecchio quando ebbero finito.
"No."
"Lo sapevo."
Si mise a guardare il fuoco, mentre sentiva che la testa già gli ciondolava. Erano stati dei giorni duri. Un viaggio molto più lungo di quello a Shimo no Kuni. D'un tratto la sollevò e la scosse, e l'eremita se ne accorse.
"Va a prepararti il letto" gli disse.
Ubbidì, e stese le coperte e si tolse i calzari puzzolenti. A una certa ora si svegliò preso dagli incubi, come quasi ogni notte ormai. La capanna era immersa nella semi-oscurità, ma riuscì a scorgere l'eremita curvo su di lui, quasi dentro al letto.
"Cosa vuoi?"
L'eremita lo guardò per un po' in silenzio.
"Lo so."
"Cosa?"
"Avevi degli incubi."
"Mi capita ogni tanto."
"Spera solo di non andare più a fondo nella scoperta del tuo cuore. Io lo so."
"Cosa?" continuò a ripetergli, quasi spazientito da quella situazione.
"Che hai un demone dentro che brucia. Un demonio avvolto dalle fiamme."
Sbarrò gli occhi, completamente ammutolito. Non sapeva cosa rispondere, ma l'eremita non glielo richiese. Lo vide acquattarsi nel suo angolo, e con discrezione fece anche lui lo stesso. Prese un sonno leggerissimo, senza mollare la presa sul kunai che fin dall'inizio aveva tenuto sotto il fagotto che usava a mo' di cuscino.
Al mattino la capanna era vuota. Guardò fuori, ma non c'era traccia dell'eremita, così prese le sue cose e se ne andò. Non aveva senso lasciargli qualcosa, visto che non l'avrebbe mai più rivisto con ogni probabilità.

Si inoltrò di nuovo nel deserto, e la sabbia a sud si stendeva lungo il confine della terra. A mezzogiorno scorse una montagna in lontananza, appena visibile all'orizzonte tremolante, e dopo due giorni le fu vicina in tutta la sua imponenza. La sabbia stava lasciando posto a un terreno a grani maggiori. Forse il suo viaggio stava terminando. Passò un altro giorno e infine raggiunse un immenso corso d'acqua di cui a malapena si scorgeva la sponda opposta. Riuscì a trattenersi a stento dal bere un po' d'acqua fresca dopo tre giorni quando lo constatò essere infestato da coccodrilli e da strane e tozza creature che - poteva giurarci - dovevano essere i cosiddetti cavalli di fiume, gli ippopotami. Seppur preso dalla fame e dalla seta, con le membra spossate dal viaggio duro e in solitaria, restò per un po' ad osservarli e prese qualche appunto su un quaderno. Quando vide la mano tremargli un po' sulla carta decise che avrebbe concluso il resoconto in un secondo momento.
Si guardò intorno. Nessun segnale di qualche insediamento. Ma era impossibile che un fiume in mezzo a un'area desertica non avesse fatto fiorire qualche comunità alle sue sponde. Decide di percorrere il fiume nella direzione alla sua sinistra, verso sud-est. Individuò una lepre del deserto coi suoi cuccioli aggirarsi tra le fronde alla sua sinistra, così prese un kunai e lo lanciò verso di loro. Riuscì a colpire uno dei cuccioli - benchè il suo obiettivo fosse la madre, questa si mise subito all'erta non appena partì il kunai e gli scappò con un balzo. Gli si avvicinò, il kunai piantato sulla sua gola e il corpo che si contraeva debolmente. Lo prese in mano, sfilò il kunai, avvolse le mani attorno alla sua testa e gli spezzò il collo, quindi lo afferrò per le orecchie e si allontanò dalla boscaglia per macellarlo.
Aveva iniziato a mangiarlo da qualche minuto quando, ancora intontito dal sole del deserto, un avvoltoio si avventò sulla lepre abbrustolita portandosela via. Ebbe appena il tempo di accorgersene che già l'avvoltoio era diventato indistinguibile dal cielo della notte. Almeno era riuscito a mangiare quelle due cosce. Lo maledì in ogni modo, e dunque pensò fosse il caso di prepararsi per la notte. Sistemò i fuochi a protezione e preparò il suo letto, pulì piatto e posate con la sabbia e poi sbattè i pezzi di latta l'uno contro l'altro, come fosse un acuto verso intimidatorio rivolto a qualche spettro assassino in agguato nell'oscurità. Lontani cumuli di nubi si innalzavano tremolanti sullo sfondo del cielo elettrico a sud per poi venire di nuovo risucchiati nel buio.
Al mattino proseguì il suo viaggio e in poche ore ebbe la prova che quanto era vivo sino allora nella sua fantasia corrispondesse a realtà. Ebbe l'istinto di tirare un sospiro di sollievo dopo quei giorni penosi, ma si trattenne subito. Iniziò a scrutare a distanza e con discrezione il centro abitato, ciondolando disordinatamente come una solitaria bestiolina reietta. Sembrava un villaggio tranquillo e sereno, di semplici agricoltori e pastori. Bambini per le strade. Animali da cortile. Un agglomerato di palafitte - in fondo, il miglior modo per proteggersi dai predatori. Ammesso che non venissero dall'acqua. Come diamine facevano coi coccodrilli? Non doveva pensarci al momento, si disse, e si rifocalizzò su quanto lo premeva in quel momento per sopravvivere e facilitare il compito che lo aveva spinto sino a lì.
Sentì dei rumori alla sua destra, come di passi accompagnati da un tonfo più sordo. Un uomo anziano lo aveva avvicinato e lo stava squadrando in silenzio. Restò immobile, a ricambiare il gesto. Sembrava in salute nonostante l'età. E, soprattutto, non sembrava avesse intenti minacciosi. Almeno al momento. Restò all'erta. Poi lo sentì prendere parola col suo curioso accento - qualcosa che un po' lo intrigò.
"Vengo da molto lontano."
Ma in quel momento non poteva permettersi il lusso di cedere a simili fascinazioni per l'ignoto. Doveva restare monomaniacamente concentrato sul suo proposito, e nulla più, e dunque sguardo più stanco e provato possibile ma senza perdere dignità - con stoicismo, senza far sì di stimolare pietà che è in fondo sentimento di disprezzo verso chi è giudicato debole. Non avrebbe dovuto poi fingere molto, pensò, viste le sue attuali condizioni.
"Mi sa dire che territorio è questo?" gli chiese guardandosi attorno.
"Ci troviamo nel distretto di Kamu, la regione più a nord della nazione di Sakyu, giovanotto."
"Non lo conosco" concluse guardandosi ancora attorno, in un misto di stupore e stanchezza: "Devo averne fatta di strada."
"Molto lontano hai detto?"
Si guardarono negli occhi. Era ovvio che non potesse cavarsela in questo modo. In fondo poteva non essere male guadagnare la fiducia di alcuni indigeni, in un territorio in cui sembrava non avere amici, ma solo nemici - nemici di cui non conosceva neanche le fattezze, oltretutto. Non che fosse difficile individuare due gatti parlanti.
" - Mi scusi se sono stato ellittico. Ho passato giorni - non proprio leggeri e piacevoli. Facevo parte della scorta di una carovana a Nord, credo - " esitò un attimo, come se stesse tentando di ricordare, e gli tornò in mente il suo incontro col vecchio eremita: " - sì, credo che abbia preso il percorso a sud, se sono in un posto che non conosco. Siamo stati attaccati da... una tribù, o dei briganti, o forse una tribù di briganti, non che questo abbia cambiato il risultato. Ci hanno soverchiati e - "
Si fermò un attimo. Abbassò lo sguardo: " - Ho pensato di fuggire. Sono scappato. E mi sono così ritrovato sperduto nel deserto. E forse me lo sono meritato. Ho viaggiato per più di una settimana credo nel deserto... e ora mi sono ritrovato qui. Quando ogni mia speranza pareva perduta. Forse è un po' pretenzioso parlare di speranza... ma è quello il concetto."
Ci fu una pausa di qualche secondo, poi alzò lo sguardo e riguardò l'uomo, e dopo un po' sorrise debolmente.
"Mi scusi, l'ho tediata con questi discorsi. Non pensavo avrei più parlato con qualcuno."
" Assolutamente, non mi hai annoiato! Comprendo le tue paure, il deserto sa essere letale se preso sottogamba... sei stato fortunato, ragazzo."
Chissà, forse se l'era davvero bevuta. Molto bene - e, in fondo, non gli aveva fatto nulla di male. Una bugia a fin di bene, soprattutto per la sua salvaguardia ovviamente, ma anche, a ben pensarci, per quella di quel vecchietto giocondo e di tutta la sua piccola comunità.
"Sono sicuro che Elohim abbia vegliato su di te e guidato il tuo cammino, se ti ha salvato dalla sete e dal caldo. E per questo, non posso che essere onorato di averti come ospite alla mia tavola."
Lo vide rispondere al suo sguardo pensieroso con un sorriso, poi il vecchio si grattò la nuca e riprese: "Non abbiamo molto in realtà, ma sarai sicuramente affamato."
"Avvoltoio di merda" pensò.
Lo guardò con un mezzo sorriso riconoscente, benchè provato - e anche lì, non doveva poi fingere chissà quanto: "La ringrazio della sua ospitalità. È vero, non nascondo di essere un po' provato. Vedrò di ricambiarla al meglio delle mie possibilità, non appena mi sarò ripreso. Non so quanto... Elohim - credo sia una vostra divinità."
Sì, un po' di senso di colpa non sarebbe andato male.
"Non so quanto lui possa vedere di buon occhio i traditori e i codardi... ma se lo dice lei."
"Codardi, ladri, affamati, lebbrosi, uomini, donne, padri e figli. Elohim ama ognuno di noi, senza alcuna eccezione. Se Elohim ti ha salvato, figliolo, un motivo dovrà esserci."
Si fece serio. Quella frase lo colpì. Si ridestò subito, ripetendosi l'assurdità di un simile fantasticante gioco di associazioni. "Non ti apparirà chiaro finché non arriverà il momento opportuno - perché i suoi progetti sono ben oltre la lungimiranza dell'uomo."
Presto il vecchio lo intimò a seguirlo lungo i campi coltivati, e infine lo condusse a una palafitta.
"Elohim è il nostro Dio. Ed è l'unico e vero Dio che regna nei cieli" disse durante il tragitto, con una certa sicurezza, e poi aggiunse " - ed un Dio temuto e bistrattato da questa maledetta nazione. E il suo popolo con lui."
"Come mai? Cosa succede in queste terre, se posso chiedervelo?"
"Il nostro popolo, gli Yhudim, si è insediato in queste terre da più di due secoli. Da quasi quarant'anni, tuttavia, i voryer ci hanno ridotto in schiavitù, dopo aver assunto il comando della nazione, sia politicamente che in ambito militare."
Lo vide fermarsi un attimo, abbassando lo sguardo. Sembrava sinceramente provato, come se ogni anno della sua vita gravasse su di lui come un macigno.
"Anche io sono stato uno schiavo al servizio del Tyrant, il regnante della nazione. Per più di trent'anni ho lavorato nel distretto di Tottori, la regione più interna di Sakyu... io e il mio popolo siamo stati costretti a rendere grande il nome di Neferkaura, il precedente Tyrant, costruendo in suo onore statue, templi e monumenti. La sua grandezza è stata edificata sul sangue e sul sudore dei miei fratelli, poi anche su quello dei miei figli.
In questo villaggio, siamo tutti esuli. Siamo riusciti a fuggire sette anni fa, dopo una rivolta interna zittita nel sangue. Ci siamo rifugiati qui, sulle sponde del fiume Yeor, nella regione più a nord della nazione. Per fortuna il territorio di Sakyu è vasto e le milizie dei voryer, per quanto consistenti, sono troppo esigue per sorvegliarlo tutto. I confini sono indifesi, spesso malfamati... e questo ci rende vulnerabili alle razzie delle tribù straniere, delle quali a quanto pare hai già avuto un assaggio.
"
" - Già. Bhe, in ogni caso qui avete comunque la possibilità di costruire un futuro migliore. Restando schiavi di quel... Tyrant, o come ha detto, credo non vi sarebbe stato concesso neanche quello."
Si guardò attorno. Le palafitte, i campi intorno a loro, le persone che li percorrevano.
"Meglio una vita modesta e dedita alla fatica... ma libera."
Come se si potesse essere liberi a questo mondo. Ma aveva l'impressione che avrebbe potuto apprezzare. Non voleva fargli nulla di male cazzo, voleva solo far sì che lui non lo ritenesse ostile - anzi, più benigno possibile. Gli sembrò apprezzare, e non poco. Perfetto!
Era sempre stata un'equazione semplice quella che aveva regolato i suoi rapporti personali, a ben pensarci: rispetta me, e io rispetterò te. Molto semplicistica per uno come lui. Ma non troppo, forse.
Poi pensò a qualcos'altro. Il primo nome che gli saltò in mente non poteva che essere quello.
" - In ogni caso, io sono Fumetsu" e gli allungò la mano.
"Io invece Nechama."
Il vecchio rispose al suo gesto, e così i due si presentarono.
"Vieni adesso, il pranzo dovrebbe essere pronto."

Edited by Jöns - 4/10/2018, 09:24
 
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view post Posted on 4/10/2018, 19:56     +1   -1
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Così, l'anziano lo condusse dentro. L'interno dell'abitazione era umile e, ahimè, sporco com'era dato immaginarsi in quella situazione. Il mobilio era ridotto al minimo indispensabile, così come gli utensili. Il pranzo di cui Nechama aveva parlato altro non era che una piccola lepre, forse un cucciolo - e chissà se una divinità non stesse realmente seguendo i passi del nostro Hakurei! Attorno al fuoco sul quale la carne veniva arrostita, vi era una donna, accompagnata da un'altra che invece si stava dedicando alla cottura in brodo di alcune patate. Le bocche da sfumare, invece... beh, quelle erano davvero numerose. Oltre alle giovani cuoche, vi erano quattro bambini e due uomini; uno di loro era un ragazzo poco più che ventenne, con una chioma sbarazzina e braccia forte e sicuramente abituate al lavoro. L'altro, invece, non era molto diverso da Nechama. Doveva avere la sua stessa età, circa, come poteva testimoniare il suo fisico curvo, oltre che la chioma imbrattata di puro candore. Eppure, ad una prima occhiata, sarebbe parso assai diverso dal coetaneo. A differenza del primo, gentile ed energico, quest'ultimo appariva stanco, oltre che diffidente. Non appena Hakurei ebbe varcato la soglia della casa, il vecchio gli lanciò un'occhiataccia. Lo squadrò come si fa con un manzo prima del macello, riconoscendo immediatamente l'ovvio. Era uno straniero, non uno di loro.
- Abbiamo un ospite. Il suo nome è Fumetsu. È un ragazzo salvato dal volere di Elohim dopo l'attacco di alcuni briganti, nel deserto. - lo presentò così, lasciando che il ragazzo potesse fare lo stesso a sua volta.
- È un piacere averti qui, Fumetsu! Raccontaci qualcosa di te, suvvia... e accomodati alla nostra tavola, ovviamente!
Fu una meravigliosa ragazza a pararsi di fronte a lui. Era giovane, con dei lineamenti tipici di una ragazza di quattordici, o al massimo quindici anni. La pelle candida di chi non pareva essere abituato al sole si sposava con la lucentezza della sua chioma cremisi e dei suoi occhi verdi, simili a smeraldi. Indossava abiti umili, come tutti lì dentro, eppure la grandezza del suo animo trapelava dal suo sguardo sincero e gentile. Prese Hakurei per mano, conducendolo con entusiasmo a quella che lei aveva definito tavola - ma che, in realtà, altro non era che una stuoia sulla quale i presenti si erano accomodati, formando un rettangolo. Non appena il giovane ebbe preso posto, la ragazza si accomodò accanto a lui, dimenticandosi bellamente delle patate. L'altra donna, la quale era più grande di lei di almeno cinque anni, a quel punto la guardò incuriosita, quasi divertita.
Uno dei marmocchi, al contrario, la puntò con l'indice ed iniziò a sbraitare qualcosa come: - Guardate tutti! Chana ha il ragazzo adesso!
- Ehi, ma che... ma che ti salta in mente? - rispose lei, paonazza in viso per l'imbarazzo, parando le mani in avanti come per giustificarsi.
- Sembra carino, dai. - intervenne una bambina dai boccoli dorati, sorridendo.
- Sì... ma questo non sign-
- Quindi vi sposerete adesso?
Mentre Nechama assisteva alla scena, divertito, Chana sembrava essere ormai prossima ad una crisi di pianto. Hakurei doveva piacergli davvero, perlomeno a primo impatto, se quelle domande innocenti erano bastate per metterla così tanto in imbarazzo. Vi era molta armonia, fra chi viveva sotto quel tetto. Erano poveri, tutti loro vivevano di stenti, eppure ciò era sufficiente. Era comunque una vita libera, proprio come aveva detto lui stesso ed era cento volte meglio di una trascorsa in schiavitù. Poco dopo, il coniglio fu servito e l'anziano dedicò una preghiera ad Elohim, per ringraziarlo del pasto che aveva concesso loro. Durante tutto quel tempo, il ninja avrebbe sentito su di sé lo sguardo penetrante dell'altro uomo. Sembrava volesse intervenire, per dire qualcosa che riuscì a sciorinare solo un istante prima che l'ospite addentasse la sua misera parte di coniglio.
- Io non sono d'accordo.
In un istante, tutti si voltarono verso di lui, seduto ad un capo del rettangolo, proprio di fronte a quello occupato da Nechama. Quest'ultimo fece per intervenire immediatamente, ma l'altro continuò, incalzandolo con un ritmo insostenibile.
- Il cibo ultimamente scarseggia, in questa regione. Ogni mese, per recuperare viveri, dobbiamo spingerci verso le regioni interne, con tutti i rischi che ciò comporta. E per cosa? Per sfamare la bocca di uno straniero?
- Elohim ci ha insegnato la sacralità di un ospite. Ricorda, la moglie di Avrahàm ricevette in dono un bambino per aver rispettato tale cortesia, quando il Signore bussò alla loro porta. - ribatté a tono Nechama, senza però perdere la calma.
- ANCORA CON QUESTA STORIA?!
Sbraitò in molo modo il suo interlocutore, il quale si alzò in piedi, rischiando di rovesciare le poche ciotole piene di cibo poggiate sulla stuoia.
- Elohim ci ha abbandonati da tempo, ormai! Siamo fuggiti dal distretto di Tottori per miracolo, a differenza di molti nostri fratelli, trucidati dalle truppe di Neferkaura. Dov'era il tuo Dio, quando il suo popolo ha invocato il suo nome? Dov'era, mentre il suo popolo moriva? Dov'era, quanto Mey-
Poi, di colpo, si zittì. Non si era nemmeno reso conto di aver superato i presenti e di aver afferrato Nechama per una manica. Abbassò lo sguardo sulla sua stessa mano e la tirò indietro, mortificato. Si guardò intorno, ma nella stanza era sceso il gelo. Tutti lo guardavano in modi diversi, chi sconvolto, chi iracondo per le parole di disgusto spese contro Elohim. A quel punto, l'uomo strinse i denti e girò i tacchi, lasciando l'accampamento... non prima, però, di aver rivolto l'ennesima occhiataccia al nuovo arrivato. Dispiaciuto, più che amareggiato, Nechama tornò a sedersi accanto ad Hakurei. Il suo volto era colmo di tristezza, come quello di un padre che si rende conto di non riuscire ad indirizzare i passi del figliol prodigo - anche se, in quel caso, l'altro era grande tanto quanto lui, se non addirittura di più. Sospirò, rassegnato.
- Oh, Lea...

 
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view post Posted on 10/10/2018, 21:57     +1   -1
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Squadrò i presenti e fece loro un leggero cenno del capo, ma subito gli saltò all'occhio lo sguardo torvo di quel vecchio. Ci pensò poco, perchè d'altronde ritenne un atteggiamento del genere più che comprensibile: le condizioni di vita della comunità di quel Nechama dovevano essere davvero modeste come vaticinava, nessun esagerazione al riguardo. Eppure vi era una sorte di pace e armonia tra loro, davvero strana e bizzarra, che raramente gli era capitato di trovare, tanto può credere nella benevolenza di un Dio che ha cura nel proprio destino. Non era poi così male, finchè non li avrebbe tutti quanto condotti a dare asilo a un ladro assassino e lestofante. Non appena lo ebbe presentato gli si pararono davanti come se lui, a cui avrebbero dovuto offrire del cibo senza conoscerlo minimamente, ecco che lo guardarono e lo avvicinarono e gli si avventarono addosso come fosse una benedizione, come il giovane uomo dal fisico energico, i bambinetti che scorrazzavano in ogni direzione della casa, rischiando non di rado di vanificare lo sforzo delle donne intente a cucinare quella che sembrava uno stufato di patate - e una lepre... che ironia della sorte! si disse sorridendo.
E così come la bella ragazza che gli si parò di fronte, con la sua pelle dal colorito insolito per un abitante del deserto, così come i suoi capelli, e i suoi occhioni verdi come quelli della ragazza di quella taverna, nella Foresta del Fuoco. Chissà se era riuscita a cavarsela davvero, come le aveva detto. Bhe, non l'avrebbe mai saputo, si disse.
Certo, questa ragazza sapeva prendere confidenza molto più facilmente - gli aveva subito chiesto di lui, chi fosse, cosa facesse, di accomodarsi alla tavola... come Nechama, insomma. Che gente curiosa. Non era male stare a osservare il loro comportamento e... e se volessero derubarlo non appena abbassa la guardia?
E' possibile, non per niente sotto il giaccone è armato fino ai denti, e col jutsu sempre in canna. Ma, al momento, non sembra esserci questo pericolo. Doveva restare vigile, si disse, valutando bene tutte le situazioni. Anche se, al momento, non gli sembravano una banda di ladri e briganti. Tra la ragazza e i bambini sembrava esserci uno scherno sincero e divertito - era tutto troppo credibile per essere una recita. Ma chissà.
"Ah, è una storia lunga" le disse, non appena lo incalzò di nuovo: "Nechama è già stato fin troppo paziente ascoltandola tutta. Siete davvero tutti gentilissimi."
Comunque, pensò, non era male che quella ragazza l'avesse preso in simpatia, così come buona parte della comunità a quanto sembrava. A parte quel vecchio lì all'angolo ovviamente. Distolse subito lo sguardo da lui e guardò Nechama, divertito da quella scena. Gli rivolse un timido e stanco sorriso di rimando. Sembrava che tutto stesse andando alla perfezione. Avere un appoggio in terra straniera era la prima cosa che sperava di trovare - ma mai avrebbe immaginato di trovarne uno così caloroso.
"E' stata solo gentile e cordiale, bimbetto" rispose a un bambinetto con un sorriso rassicurante, frenando a forza di sfoderare una sottesa battuta o uno sguardo pungente. Non che gli desse fastidio quello che diceva - ci mancherebbe! -, ma per stuzzicare, per puro e innocente divertimento.
Stava ritornando in forza ancora prima di bere e mangiare, a quanto sembrava. Era un ambiente davvero curioso, non poteva negarlo.
"Queste cose non si decidono dall'oggi al domani, non ti pare?" e sollevò un sopracciglio. Era dura trattenersi. Ma, in fondo, non stava dicendo nulla di possibilmente offensivo. Non dipendeva solo da lui ovviamente, di questo era ormai da tempo consapevole: per fortuna, le circostanze gli erano favorevoli - su questo non poteva obiettare.
Quando la cena fu servita, Nechama innalzò una preghiera al loro Dio, ringraziandolo di quanto aveva loro concesso. Era sempre curioso vedere come le persone, seppur in modo diverso, si augurassero tutte quante buona fortuna. Chi con un gesto scaramantico, chi innalzando templi o preghiere, chi facendo dei sacrifici o sventrando animali: tanto modi diversi di augurarsi buona fortuna. Davvero curioso. Ma a ciascuno il diritto di percorrere la propria vita come meglio credeva, ovviamente: finchè non diveniva un suo diretto problema, avrebbero potuto augurarsi buona fortuna mangiando merda al forno una volta alla settimana, per quanto gli riguardava.
"Io non sono d'accordo."
Era strano che quel corvo imbiancato non aprisse bocca in quel momento, proprio mentre era a un passo dal mettere qualcosa sotto i denti - ma vaffanculo! Non poteva certo mangiare come niente fosse, mentre sulla stanza era sceso un gelo artico simile a quello di Shimo no Kuni. Ed in mezzo a un area semi-desertica per di più.
Prese un respiro profondo e cercò di non dare a vedere come gli avrebbe piantato un kunai nella fronte in quel momento - una conseguenza diretta dell'insistenza e dell'intensità con cui il suo hardware di carne e ossa gli stava facendo notare tutto il suo disappunto per la coscia che si allontanava sempre più dalla bocca, andandosi a posare nuovamente nel piatto -, quindi decise di ascoltare con quanta più calma possibile il confronto con Nechama e cercare di vedere le cose da una salvifica, idilliaca prospettiva impersonale.
Non aveva tutti i torti in fondo. Sia riguardo al cibo - fosse stato parte della comunità, in quel momento non avrebbe mai fatto una cosa del genere, a meno che non ci fossero secondi fini e interessi che a lui sfuggivano in quella calorosa ospitalità. E se volessero spingerlo ad accoppiarsi con la ragazza, come fosse un animale? Piuttosto improbabile, l'altro ragazzo è più grande e più muscoloso di lui, insomma, dovrebbero averlo già in casa una risposta al loro problema, qualora ragionassero realmente in questo modo - in fondo, cosa avevano detto i bambini appena lo avevano visto? Bhe, era meglio non pensarci al momento: non aveva senso coi dati a disposizione.
Insomma, fosse stato parte della comunità avrebbe tranquillamente sentenziato che chi muore in una battaglia che non è la sua non sarebbe mai dovuto nascere, come sempre. Uno dei suoi mantra. Anche se gli era capitato di infrangerlo ogni tanto, a ben pensarci. No, puttanate: non aveva mai combattuto una battaglia che non fosse anche in minima parte sua, o che lo fosse diventata col passare del tempo. Poteva dire, con una certa soddisfazione, che la sua coscienza non avesse mai vacillato da quel punto di vista, ponendo le briglie del raziocinio sempre dietro ai cavalli dell'istinto più becero, insensato e improduttivo - nonchè dannoso, il più delle volte.
E non si poteva neanche dire che il loro Elohim sembrasse fare molto per la gente che credeva in lui - questo era ovvio, ma sarebbe dovuto esserlo ormai anche agli occhi di un credente come quel vecchio. E tuttavia, parafrasando le parole dell'anacoreta, chissà se una disgrazia non li avesse salvati da qualcosa di peggiore. Come essere trucidati come i loro compagni. Da quel punto di vista, era andata loro più che bene, non poteva lamentarsi poi così tanto.
Lo vide sfogarsi quanto possibile come la bestia dissennata che stava diventando, prendendo Nechama per il colletto - finchè la situazione non si fosse fatta oltremodo critica, avrebbe tentato di restare in disparte -, quando infine, sotto gli occhi sdegnosi della comunità, non abbandonò la sala - certo, non prima di avergli lanciato un ultimo sguardo malevolo e carico di sfida e risentimento; che razza di stronzo! perchè non si fiondava su di lui allora, se proprio ci teneva. Avrebbe risolto il problema alla radice. Ma la collera in corpo annebbia ogni buon senso, questo era risaputo, danneggiando il più delle volte se stessi.
O forse non era solo colpa sua - pensando meglio alle sue parole, e la volto di Nechama, al suo tono di voce, gli era dato di pensarlo.
"Mi dispiace. Non volevo creare simili problemi."
In fondo, volendo non guardare il tutto semplicisticamente, analizzando il problema con più scrupolo e distanza possibili, sarebbe necessario rivisitare la terminologia comune, si disse: non dire io amo quella persona o odio quell'altro, ma invece dire mi attraggono o mi ripugnano. E con un passo maggiore verso l'esattezza scientifica tra segno e suo oggetto rappresentato, bisognerebbe dire che io suscito in loro la capacità di attrarre o di respingere, come era accaduto rispettivamente con Chana e con quel Lea - se davvero era quello il suo nome; l'individuo, lui Hakurei, era lo stesso, ma due persone con schemi e vedute differenti avevano ricevuto un'influenza diametralmente opposta dalla sua presenza, di cui non si può dire da dove si compia il primo passo di quell'effetto. Da dove possa aver avuto origine quell'evento, quel naturale moto dell'animo. Era naturale, ovviamente, cercare di non far caso a queste cose, preferendo di gran lunga sentirsi sempre causa e origine dei campi magnetici del sentimento che circondano ogni uomo. Ma la verità, pensava non senza un soffuso sentore di presunzione, non sarebbe apparsa tanto diversa da un'ape sul vetro di una finestra o da un infusorio in un'acqua avvelenata, per chi era dotato di un pur modesto spirito di osservazione; si capiva in sostanza, che anche nel più acuto stato di eccitamento emozionale, quando si è travolti da quella tempesta di sentimenti che spinge a buttarsi ciecamente di qua e di là, a sbattersi cento volte contro l'impenetrabile, la causa agisce sotto traccia, senza che il suo agente e manichino sappia poi molto di ciò che lo sospinge in avanti nel suo peregrinare dissennato. E alla fine, se si è fortunati da resistere alla tormenta, si riesce a trovare una via d'uscita, un'unico spiraglio il che, più tardi, nel ristabilito letargo della coscienza, sarà nel quadro generale delle cose l'aver agito secondo un piano preordinato, senza possibilità di appello.
"Forse è meglio che vada, davvero."
 
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view post Posted on 13/10/2018, 15:34     +1   -1
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Nel momento in cui le orecchie di Nechama udirono le parole dell'ospite, questo lo guardò con fare dubbioso, tanto quanto mortificato. Certo, il comportamento di Lea non avrebbe fatto piacere a nessuno, ma l'ultima cosa che desiderava era che il giovane Fumetsu si sentisse costretto ad abbandonare quella comunità, prematuramente, specie dopo le peripezie che aveva trascorso prima di arrivare sin lì.
- Andare? E dove? Il deserto sa essere spietato, giovanotto, e la tua carovana può essere stata massacrata, dispersa nel migliore dei casi. - commentò con sincera preoccupazione, insicuro circa le possibilità del ragazzo di affrontare da solo i pericoli che il deserto nascondeva - Se ti senti costretto per quanto è accaduto, non fartene un cruccio. Sei nostro ospite, finché ne avrai voglia, perché questo vorrebbe Elohim... Lea è turbato dalla tua presenza, questo è vero, ma ci farà l'abitudine, volente o nolente. Purtroppo non è più lo stesso, dopo quanto accaduto nel distretto di Tottori. La libertà è stata per noi una conquista sudata e pagata a caro prezzo, ma per lui... per lui questa conquista ha un sapore ben più amaro. Non riuscirà mai a sentirsi davvero libero, dopo quel giorno.
Per un momento, la voce vigorosa dell'uomo si fece più flebile, quasi come un sussurro. Non era certo un argomento frivolo, quello che riguardava il loro vissuto, in particolar modo quello di Lea.
- Non importa, vi sto creando molti più problemi di quanto potessi immaginare - sia usufruendo del vostro cibo, sia portando discordia nella vostra comunità. Vi ringrazierò sempre in ogni caso per la vostra gentilezza, me ne ricorderò.
Simulando con astuzia un senso di colpa assai poco celato, il giovane riuscì ad essere convincente al punto giusto. Ciò, ovviamente, gli diede la possibilità di incalzare il vecchio con le sue parole, così da ottenere le risposte che desiderava.
- Appena potrò cercherò altro cibo per voi tutti, come ringraziamento. Spero in questo modo di... riuscire a sanare il contrasto che ho creato, ecco. - fece poi una pausa, riflettendo ancora un po' - Sarei tropo indiscreto a chiedervi cosa gli è successo?
Seppur deluso dalla partenza prematura di Fumetsu, Nechama cercò di non darlo a vedere. L'ultima delle cose che desiderava era trattenerlo lì contro la sua volontà - pertanto l'avrebbe rispettata, qualsiasi essa fosse. Più evidente e mal celato era invece il broncio di Chana, amareggiata e dispiaciuta per il fatto che il giovane avesse deciso di fermarsi così poco fra loro. Ci poi un lungo sospirò dell'anziano, prima che questo rispondesse alla domanda che gli era stata posta.
- Lea aveva una figlia, Meyer.
A quel punto, oltre la voce, Nechama abbassò anche lo sguardo.
- Una ragazza cresciuta in schiavitù e che già da bambina si è vista privata della madre e del fratellino, a causa della crudeltà dei voryer.
Era chiaro come quel tasto fosse dolente non solo per lui, ma anche per chiunque sedesse a quella "tavola" - fatta esclusione per i bambini che, per forza di cose, dovevano aver rimosso dai loro ricordi quei momenti o, ancora meglio, dovevano essere nati in tempi più favorevoli, lungo le sponde del fiume Yeor.
- Trent'anni fa, fu programmata da Neferkaura l'uccisione di ogni bambino maschio nato quell'anno... c'è chi dice fosse dovuto alla sua paura riguardo una profezia, chi invece ha visto in quel gesto estremo la necessità di decimare il nostro popolo, per ridurre le bocche da sfamare, divenute troppo numerose. Il fratello di Meyer era uno di loro e la sua morte deve aver fatto scattare qualcosa in lei. Il desiderio di proteggere la sua gente, la ferrea volontà di impedire ai voryer di disporre degli schiavi come desideravano. Un giorno, arrivò ad essere frustata per impedire ad uno di loro di frustare un anziano lavoratore... mio padre.
Fece una pausa, osservando con dolore la povera Chana, la quale a stento riusciva a trattenere le lacrime. Era evidente che per lei, in particolar modo, Meyer doveva aver rappresentato un pilastro, forse addirittura un modello da seguire.
- Da quel giorno, Meyer si è impegnata con anima e corpo nella missione che credeva di aver ricevuto da Elohim. Continuò a perseverare, malgrado le punizioni sempre più severe. Aveva circa ventinove anni, quando fu accusata di essere a capo di un gruppo di rivoltosi. Venne condannata alla pena capitale senza un degno processo, con la stessa fretta e necessita di chi sopprime una bestia malata. Il giorno dell'esecuzione, quando la sua testa fu separata dal corpo... gli Yhudim si rivoltarono ai loro padroni. In quel giorno, si consumò la ribellione. Chi combatté, fu brutalmente ucciso, mentre noi... noi ne approfittammo per fuggire. Prendemmo Lea con noi, contro la sua stessa volontà. Da allora, ogni giorno rimpiange di non essere morto lì, accanto alla sua Meyer.
In quel preciso istante, Hakurei poté comprendere come Nechama dovesse sentirsi. Colpevole, tanto quanto poteva esserlo lui, nella storia che aveva inventato e che vedeva la sua carovana attaccata da un gruppo di briganti.
- Capisco. Quindi i vostri compatrioti sono tutti rimasti uccisi nella ribellione, o scappati qui, tra le sponde di questo fiume?
- Non tutti. Il nostro mondo non è composto per sfortuna di sole sfumature di bianco o nero. I sopravvissuti si trovano sparsi nelle regioni di Sakyu, per lo più a Tottori, come schiavi al servizio del nuovo Tyrant. Userkaura, il figlio primogenito di Neferkaura. - si fermò un attimo, per prendere fiato - Dopo quel giorno, le punizioni più severe hanno strozzato sul nascere qualsivoglia scintilla di nuova ribellione.
- Una brutta storia, insomma. - replicò il giovane, scuotendo la testa - Comunque... non appena mi sentirò un po' meglio, andrò a recuperare un po' di cibo nei dintorni. Chissà che questo non possa risanare i rapporti tra voi e Lea.
- Potrai accompagnarmi domani ai piedi del monte Oreb, allora.
Fu una voce esterna ad intervenire e tutti, nessuno escluso, si voltarono verso l'entrata della modesta dimora di Nechama. Un uomo sui trenta entrò, appoggiando il peso su un solido bastone da pastore. Indossava un'umile stuoia cremisi che ben si sposava con la sua chioma e la sua barba castane, così come con i suoi occhi color nocciola. Tutti quanti si mostrarono sorpresi, in particolar modo i bambini, che esclamarono: - Moshè!
- Buona idea, lì le pecore potranno trovare ristoro e tu della buona selvaggina, con un po' di fortuna. - ribatté Nechama, rivolgendosi a Fumetsu. Il nuovo arrivato intanto prese posto alla tavola, allungando le mani verso quanto era rimasto del coniglio e dando un morso al pasto, con gusto. Sembrava ben voluto, tanto che immediatamente venne circondato dai bambini. Lo stesso padrone di casa gli sorrise, compiaciuto.
- Mi sta bene. - gli rispose Hakurei, sorridendo di rimando.
- Ho incrociato Lea, sembrava infuriato per l'arrivo di un ragazzo con occhi di fuoco ed una lingua biforcuta che ci privava del nostro cibo. - lo incalzò, ridendoci sopra - Certo che ne ha di fantasia, quell'uomo! Benvenuto nella nostra comunità, ragazzo.
- La ringrazio. -rispose prontamente il più giovane, osservando pensieroso quanto era rimasto nel suo piatto - Devo dire che la vostra comunità è... peculiare. Diversa da quelle che ho incontrato. Sembrate avere qualcosa... di diverso.
Ci pensò ancora un po', ma poi agitò una mano.
- Comunque, lasciate stare!
- No dai, continua pure. - lo incitò invece la dolce Chana, sinceramente curiosa. Moshè la guardò sorridendo, quasi sognante. Hakurei rise nel vedere la risposta spontanea della fanciulla, venendo invece smorzato dall'espressione enigmatica del nuovo arrivato, anche se non del tutto.
- Bhe - come ho detto a Nechama io sono un mercenario, questo avrà influito penso. Per un soldato una comunità vale l'altra, e principalmente il rapporto coi tuoi compagni è un continuo stare allerta. - si fermò un attimo - Ed evitare che ti sfruttino e rigirino come vogliono, magari mandandoti a morire senza pensarci molto.
Il che - si ritrovò a pensare - non era diverso dalla realtà che lui stesso stava vivendo a Konoha, così come all'eremo.
- Ma qui, ecco... Non lo so, non saprei dirvelo. Sembrate vivere... in un'armonia strana. Quasi irreale - almeno, per la realtà che conosco io forse.
La ragazza rimase incantata dalla narrazione del coetaneo e fece per rispondere, venendo però interrotta dal più grande: - Fra noi non troverai soldati, ragazzo. L'unica cosa da cui dovrai guardarti le spalle, al massimo, sono le pietanze di Chana.
- Moshè! - ribatté lei con fervore, mostrando un viso paonazzo. Lui rise, tornando poi improvvisamente serio. Guardò Hakurei, con tutta l'aria di chi avrebbe voluto parlare con lui in privato - magari approfittando dell'occasione che avrebbe avuto il giorno seguente. Il ragazzo rise di rimando, aggiungendo però, con un pizzico di ironia e malizia, rivolto a Chana: - Ma sono sicuro che in lei si nasconda una buona cacciatrice. Sempre che tu non sua come quelle giovinette altolocate a cui fa impressione la vista di un po' di sangue.
- Permettimi di venire con te domani, allora. Ti farò vedere di cosa sono capace. - ribatté lei in un moto d'orgoglio, alzandosi e rimboccandosi le maniche. Guardò prima Nechama e poi Moshè, cercando approvazione nei loro volti, ma nessuno sembrava avere da ridire in merito.
- Perfetto, allora. Bada però a non colpire me, né il signor Moshè.
Tutti risero a quella battuta, in quel caso persino Chana. Aveva ragione, Hakurei. Quella comunità era ben diversa dalle altre.

EkNWK

Il giorno seguente.
Febbraio 249.

Raggiungere il monte Oreb non era stato complicato, sebbene il viaggio a piedi fosse stato lungo e faticoso. Si erano visti costretti a partire in piena notte, soltanto per arrivare lì con il favore delle prime luci del mattino. Dietro la vetta, un sole dalle sfumature rosee iniziò a svegliarsi, facendo però cadere nella penombra il fianco roccioso che iniziarono a scalare. Quello era il monte che aveva visto una volta raggiunta la regione di Kamu e che lo aveva guidato fin lì, non vi era alcun dubbio... e visto dai suoi piedi, il rilievo appariva ancora più imponente e maestoso, quasi come se potesse essere esso stesso la sontuosa dimora di Elohim.
Mentre Moshè si occupava del gregge e dei suoi bisogni, Hakurei ebbe modo di trascorrere del tempo insieme alla dolce Chana. Sin da subito, il ragazzo comprese che la ragazza non aveva scherzato, circa le sue capacità nella caccia, e che la sua intuizione si era rivelata corretta! Anzi, sembrava persino più brava del coetaneo - e non c'era da stupirsi, lei doveva essere cresciuta con certe responsabilità sulle spalle. Al contrario, lo shinobi doveva essere invece più bravo nello scannare uomini, anziché bestie. In ogni caso, prima che il sole raggiungesse la posizione più elevata in un cielo sconfinato e limpido, entrambi avevano abbattuto e catturato una manciata di lepri di montagna, un serpente ed un numero più numeroso di scoiattoli.
Pranzarono con uno dei roditori più piccoli, così da preservare il resto della selvaggina per la comunità. Dopo il pasto, Chana si concesse un po' di riposo, appisolandosi supina all'ombra di un frassino, con le mani incrociate dietro la nuca ed un filo d'erba ben stretto fra le labbra. Approfittando dell'occasione, Moshè fece cenno ad Hakurei di seguirlo. Si allontanarono quanto bastava per seguire la strada percorsa da un agnello più vivace del resto del gregge... e perché la fanciulla non potesse udire le loro parole.
- Sembra che tu le piaccia molto, Fumetsu.
Lo punzecchiò, spezzando il ghiaccio con un argomento frivolo. Eppure, quella aveva tutta l'aria di essere una discussione che avrebbe occupato parecchio tempo, oltre che un colloquio voluto, se non addirittura pianificato con una certa cura.

 
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view post Posted on 14/10/2018, 18:36     +1   -1
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La battuta di caccia avrebbe avuto inizio alle prime luci dell'alba. Partirono a notte inoltrata per raggiungere il monte - e, quando venne a conoscenza della cosa, gli sorse il dubbio che quel monte non fosse proprio lo stesso veduto qualche giorno prima, in mezzo al deserto, e osservato da chilometri e chilometri di distanza, per giorni e giorni di marcia. Forse, ben riposato e con una guida affidabile, qualche ora di marcia sarebbe bastata a raggiungerlo.
O forse, più semplicemente, volevano portarlo in un luogo appartato, fargli abbassare la guardia, rintontirlo con le manfrine di fratellanza e comunità, e proprio a quel punto sgozzarlo per privarlo di ogni cosa. Non che avesse molto appresso, ma una buona spada, una lancia esotica e ben lavorata, un bel giaccone nero e morbido, insomma, aveva cose possibilmente interessanti per una comunità di miserabili - nel senso meno morale del termine.
Già.
Benchè si sforzasse di tenere alto quel sentore di sospetto, che da sempre lo accompagnava, specialmente negli ultimi tre anni, non riusciva a vedere in loro, nei loro gesti, nei loro sorrisi, nella loro calda ospitalità - se si escludeva quel tipo ovviamente... come cazzo si chiamava? Comunque, escluso lui... non sapeva cosa pensare.
Gli Homura erano stati ospitali con lui solo per poterlo sfruttare nelle trame del loro Ordine di fanatici - cosa che, a un'anima pura come Setsuna e a un ingenuo idealista come Arashi Uchiha, poteva anche andar bene, qualora fosse stata utile a salvare delle preziose vite umane; ma per lui, che riteneva la vita umana in sè, come fenomeno generale, un fenomeno piuttosto sopravvalutato, ecco per lui avrebbero potuto bellamente farsi fottere, loro e i loro figli - salvo, Himistu magari. L'unica vittima inconsapevole degli eventi. Davvero, semplicemente, degli eventi? Non ci pensava da molto.
La montagna si intravvedeva in lontananza, nel buio azzurrognolo prima dell'alba. Doveva essere davvero lei, immensa come una fortezza costruita da giganti. Non bastò a togliersi dalla testa quel pensiero. Gli ultimi eventi, altrettanto se non più intensi e gravosi, glielo avevano fatto rimuovere quasi del tutto. Era davvero stata colpa sua? Era davvero stato lui a ucciderla?
Ci pensò a lungo. Poi sbuffò e scosse la testa.
Possibile, ma sicuramente in modo indiretto. Non era stata assolutamente sua intenzione. Aveva un obiettivo da seguire. Ci ha rimesso qualche innocente. Che cosa poteva farci? Era come aveva detto a Setsuna, poco dopo: Alcuni alberi prosperano rigogliosi, altri vengono colpiti dai fulmini. Alcuni capi di bestiame crescono forti, altri vengono abbattuti dai lupi. Alcuni uomini nascono abbastanza ricchi e abbastanza stupidi da vivere la loro vita senza alcun affanno, senza pensieri del genere a turbarli. Niente è giusto a questo mondo, raramente qualcuno ha ciò che merita.

Esatto. Nessuno ha ciò che merita.

Valeva per lei, valeva per lui, valeva per Himitsu. I meriti non c'entrano con queste storie. Non c'entrano mai.



Alle prime luci dell'alba, l'ombra di un'aquila che aveva spiccato il volo da quelle fortezze scoscese e inaccessibili per chiunque altro attraversò le loro come un flusso di piombo fuso tra vasi comunicanti privi di contorno, e lui alzò la testa per seguirne il volo finchè si perse in quel vuoto freddo, azzurro e perfetto. Si arrampicarono tra cespugli spinosi e piccole palme, poi passarono un valico nei pressi di un grande dattero e proseguirono fra le rocce scoscese.


La mesa che avevano raggiunto si affacciava su tutto il territorio a nord. A oriente il sole sorgeva in un olocausto abbagliante dal quale si levavano i primi uccelli del mattino, e a metà strada il letto vitreo di un fiumiciattolo sprizzava piccole faville da quell'astro nascente. La polvere del deserto all'orizzonte soffiava nel vuoto come l'orma di un esercito in fuga, e a occidente un branco di cervi avanzava verso oriente come a cercare quella luce, incalzati da un branco di lupi dello stesso colore del deserto.
"C'è nessuno lì?"
La voce di Chana lo riscosse.
"Capisco che è un bel panorama, ma se vuoi essermi d'aiuto in questa caccia dovresti darti una mossa."
"Scusami, volevo solo darti un po' di vantaggio."
Lei socchiuse gli occhi e gli diede una leggera spinta, mentre lui estraeva la lancia dando le spalle al deserto.
"Ah, davvero? Sta attento però, che rischierei di colpire te o Moshè."
"Qualora non fosse quello il tuo obiettivo sì, credo proprio dovrei stare attento."
Un sibilo alla sua sinistra, come di un oggetto vibrante a gran velocità; non fece in tempo a capacitarsi dell'accaduto, quando vide la lancia piantata sul terreno a qualche decina di metri di distanza ancora roteante sul suo asse.
Chana era già scattata in avanti e lui la seguì a passo più lento, ancora stranito.
"Parli troppo secondo me."
Quando la raggiunse, sul suo volto era impresso il marchio di una soffuso soddisfazione, mentre gli indicava una lepre di montagna morta sul colpo.
"Parli, e non osservi il mondo che ti circonda."
Questa era buona detta a lui, pensò. Ma, effettivamente, non sapeva cosa rispondere. Era stato messo fuorigioco, sotto ogni punto di vista: non poteva far altro che osservare la lepre con una faccia di sasso, e non di un sasso qualsiasi, ma di un sasso a forma di faccia incredula.
" - Sì, forse un po' ci sai fare."
"Un buon cacciatore deve sfruttare tutte le sue capacità tranne la voce. Come hai fatto a sopravvivere nel deserto?" lo provocò, alzando un sopracciglio per poi incamminarsi nella sterpaglia.
Sorrise.
" - Già, me lo chiedo anch'io."


Sparse sulla mesa, le sterpaglie secche ondeggiavano al vento come una lunga eco, tramandata dalla terra, di lance e aste intrecciate e agitate in antiche battaglie ormai dimenticate dall'uomo.
Chana era sdraiata sotto un frassino, l'unica tipologia di alberi degni di questo nome che sembravano crescere nell'habitat ostile e disgraziato di quella montagna gigantesca. Era sicuramente una ragazza che sapeva come badare a se stessa, al di là delle prime impressioni che aveva avuto - forse, macchiate anche della sua naturale e spontanea sufficienza. Come spesso gli era accaduto, doveva darsene atto. Con Urako, con Jurobei, con la ragazza della locanda, con Arashi Uchiha, con Raion Kamata.
"Una lista piuttosto lunga, mio caro" si disse sorridendo, poi distolse lo sguardo e tornò a osservare l'altopiano.
Non passo molto tempo, che quell'uomo venuto a portare lì il gregge al pascolo lo intimò di seguirlo. Un agnello si stava allontanando eccessivamente dal gregge.
"Ma tu guarda un po', mi sono messo a fare il pastore alla fine."
Mentre seguivano l'agnello che sgattaiolava agile e spigliato tra le rocce, ci pensò un po'. Su quanto stesse facendo. Su quanto avesse perduto. E sul perchè, ancora stesse combattendo.
" - Una vita tranquilla. In fondo... non è poi così male."
Lo riscossero le parole dell'uomo. Non sapeva cosa pensare di lui, nè come interpretare certi suoi atteggiamenti - il modo in cui lo guardava, il modo in cui gli sorrideva, tutto gli sembrava nel tremolante confine dei domini dell'ambiguità - e quindi, barriere del sospetto massime, e pronti a ogni evenienza.
"È l'effetto che fanno i nuovi arrivati. È una ragazza in gamba, conoscendomi meglio cambierà idea."
Quando l'uomo, Moshè gli sembrava di ricordare adesso, si mise a ridere si unì anche lui, sollevato che una certa tensione fosse stata esorcizzata per il momento.
"Perché dici questo?"
Fece spallucce.
"Per ora vede il fascino dello straniero misterioso e derelitto. Da tutti dimenticato. L'unica cosa che so fare è portare questa spada, e neanche poi così bene. Non credo di essere poi così interessante, a lungo andare."
"Non dovresti sottovalutarti così, ragazzo."
Si prese una pausa, come se si apprestasse a dire qualcosa di focale.
"Sarò franco. Sono ancora indeciso sul fidarmi o meno di te. Non fraintendermi, non sono prevenuto come Lea nei confronti degli stranieri... ma al tempo stesso, sono più attento di Nechama, il cui sospetto è andato scemando nel corso degli anni. Come potrai capire, tengo solo all'incolumità della mia gente e della mia famiglia. Quindi, ti chiedo: chi sei davvero?"
Eccoci. Ci siamo. Non lo sorprese più di tanto una presa di posizione di quel tipo, già da tempo nell'aria. Era ostile? Non sembrava. Era potenzialmente ostile? Chi cazzo poteva dirlo. Avrebbe potuto reggere uno scontro con lui? Forse sì. Forse no. Forse vaffanculo. Doveva solo restare tranquillo al momento, rilassato, ciondolante ma con le orecchi dritte sulla testa, pronto a cogliere il minimo segnale.
"Mi ricorda una conversazione avuta un po' di tempo fa con una persona."
Ci pensò e sorrise.
"Le dissi che è difficile capire chi sei se non sai dove sei - "
Già, e quel ricordo lo riportò del tutto con i piedi per terra.
Vita tranquilla? Certo, insieme ai dragoni fatati e agli unicorni volanti. Non esiste alcuna vita tranquilla a questo mondo. E' un'illusione. Calda e seducente, certo, ma sempre illusione rimane.
Dovunque si vada, l'unico posto che ci attende... è sempre un campo di battaglia.
"Ma comunque -" e scosse la testa: " - Io sono da più di una settimana in viaggio nel deserto. Pensavo glielo avessero detto. E se è dell'incolumità della sua gente che si preoccupa, può star certo che non è mia intenzione far loro del male, anzi. Fintanto che si rispetta me, fintanto che non devo temere per la mia incolumità, non sarò in alcun modo una minaccia per voi."
"Avanti brutto bifolco, vedi di non fare scherzi. Cazzo, stava andando tutto troppo bene in effetti."
"Non ti reputo una minaccia per noi. Noi sei uno di loro. Non sei un khafir, né tanto meno un voryer. Altrimenti avrei colto la tua reazione nel sentire il mio nome, malgrado la tua giovane età."
Ancora quei nomi, di cui non aveva trovato una sola traccia ad Abducalsar. Maledizione. Da quel punto di vista, la sua missione era ben lontana dal compiersi, e quella sosta nella comunità degli Yhudim - benchè propizia viste le sue condizioni - non poteva far altro al momento che rallentare la sua tabella di marcia.
"Tuttavia, rimani un incognita. So che hai vagato nel deserto, ma perché sei qui? Chi ti ha assoldato? Quanto ti paga? Perché ti paga?"
Le sue ultime parole lo fecero sorridere.
"Sembrate molto diverso dagli altri. Più pragmatico in un certo senso. Paghe, assoldare. Insomma, non sembrano parole di un uomo cresciuto nella miseria."
Doveva darsi una mossa. Darsi da fare. Vedere se avrebbe potuto cavare qualcosa circa i suoi bersagli, qualche informazione di una qualche utilità.
"Questo perché non sono un uomo cresciuto nella miseria."
Meraviglioso, si disse. Quel Moshé poteva rivelarsi più interessante del previsto. Socchiuse gli occhi indagatore, inclinando la testa leggermente sulla spalla destra.
"- Capisco."
Ci pensò un po'. Se voleva che lui si scoprisse, che fosse collaborativo, si disse, avrebbe necessariamente dovuto esserlo anche lui. Almeno un po'.
"Io non sono colui che sono. Si potrebbe dire così. Per lei, quanto per me. La missione per cui vagavo nel deserto non è ancora terminata. Ho ancora qualche possibilità di portarla a termine. Ho omesso dei dettagli su di me, ma state pur certo che è stato fatto solo per proteggere la sua comunità. Se questo vi ha offeso... spero di potervi ben ripagare del torto subito, qualora riuscissi a sopravvivere."
Una paga bella sostanziosa, visto che, con ogni probabilità, i suoi obiettivi dovevano centrare qualcosa con la nazione si Sakyu. I gatti tendono ad andare dove la terra prospera, non poteva essere un caso quello. Due gatti dell'eremo così abili e perspicaci non avrebbero potuto farsi sfuggire un'occasione del genere.
Lo vide sorridergli beffardo.
"A questo punto, Fumetsu, la domanda è d'obbligo. Chi, tra i membri della stirpe di Neferkaura?"
Cazzo, quella domanda si che lo stupì, con buona pace della dissimulazione. Come aveva fatto a intuirlo? Non doveva pensarci eccessivamente, doveva ricomporsi.
" - Sa niente di Ubaste e Baset?"
Ecco però quello stesso stupore sul volto dell'uomo, forse anche peggiore.
"Come puoi conoscere i loro nomi?"
Almeno, sperava peggiore - più stupito di così voleva dire che era a pochi passi da un principio di infarto. Lo vide scuotere la testa, e poi riprenderea parlare
"Sono i consiglieri del Tyrant. E non solo. Da prima che io abbia memoria, di fatto hanno condiviso il potere temporale e spirituale sulla nazione di Sakyu. Non li ho mai visti di persona... nemmeno quando ero a corte, mai hanno voluto concedermi udienza."
Hai capito i due micetti, si disse. Avevano fatto carriera. Forse era su di loro e sulle tecniche e i segreti trafugati che Sakyu aveva fondato il suo potere. Possibile. Non certo ovviamente, con quanto aveva in mano.
"Come mai lei era a corte, se posso chiedervelo?"
Vide Moshè stringere con più forza il bastone, come se nel riflesso dei suoi occhi albergasse un qualcosa di spiacevole, se non addirittura doloroso.
"Per ventitré anni sono stato il figlio adottivo del Tyrant, fratellastro del suo naturale primogenito, Userkaura."
Moshé abbassò lo sguardo.
"Sono cresciuto fino ad allora all'ombra della verità. Soltanto durante la ribellione, ho scoperto chi fossi davvero... la mia vera madre, che non ho mai conosciuto, mi lasciò dentro una cesta in balia del fiume Yeor, durante l'anno del genocidio dei neonati. Per puro caso, giunsi nei pressi del tempio ch'era la dimora di Neferkaura. Venni raccolto da sua moglie, Safiya, che mi accettò come suo figlio. Fu lei a darmi il nome di Moshè, che nella lingua degli Yhudim significa salvato dalle acque."
Raddrizzò la testa, come di scatto, e inarcò le labbra.
"Una storia pittoresca, insomma. E dunque potrebbe dirmi qualcosa in più su questa città. Ha mura, un esercito potente, possibili passaggi segreti, chi sono questi Tyrant e Userkaura? Dovrei temerli, qualora dovessero trovarsi a portata della mia spada?"
"Smettila con i convenevoli, Fumetsu. Direi che il lei, a questo punto, possiamo anche lasciarlo da parte."
Aggrottò le sopracciglia per un istante, ma subito le ridistese. Non si aspettava una reazione del genere. Stava battendo dove doleva, evidentemente. Bhe, che si fotta! l'importante era che gli desse le informazioni che cercava.
"Come vuoi tu" gli disse, con un sorrisetto vagamente malizioso.
Lo vide riflettere, grattandosi la testa.
"Il suo esercito è più che potente, parliamo di qualcosa come cinquantamila unità, fra soldati ed ufficiali. E questo solo nel distretto di Tottori, altre decine di migliaia di unità sono sparse nelle regioni più lontane... anche se, come avrai potuto vedere, non riescono a giungere ovunque."
"Una nazione pacifica, insomma."
Lo vide sorridere.
"Non può essere altrimenti, da quando Neferkaura ha sottomesso gli Yhudim. Il primo Tyrant era un uomo d'affari, che ha colto nella schiavitù il trampolino di lancio per ottenere il potere, oltre che il denaro. Neferkaura è stato un desposta, ma al tempo stesso anche un uomo che, da solo, è stato in grado di costruire un impero. Userkaura, suo figlio, possiede meno doti politiche e diplomatiche... è molto più impulsivo, lo è stato sin da ragazzo. Prima della sua investitura come nuovo leader della nazione, è stato generale dell'esercito. Un tipo con il quale non ti piacerebbe batterti, fidati."
"Non mi piace battermi. Se potessi lo eviterei, una lotta è sempre una puntata d'azzardo: il risultato non è mai certo. Per questo vorrei evitarlo il più possibile... qualora raggiungere il mio obiettivo non me lo richiedesse."
"Lo sarebbe, se dovessi scontrati con lui."
"Perché dici così?"
"Perché ho combattuto al suo fianco, nelle guerre contro le nazioni adiacenti. La regione di Kamu apparteneva ad un popolo straniero, quindici anni fa. In queste terre l'ho visto battersi con la furia e la cattiveria di un orso. Nessuno è riuscito anche solo a scalfire la sua armatura."
Ottimo, insomma!
" - Descrizione esplicativa. Una ragione in più per evitarlo in combattimento."
Moshè rise a quella frase, ma presto ritornò serio e pensieroso.
"Invece la capitale, Tottori, non presenta mura. La città sorge sulle sponde del fiume Yeor ed è di fatto un ammasso di templi e strutture erette in onore dei Tyrant dal nostro popolo, che loro chiamano "shklaf", ovvero schiavi. Ogni possibile ingresso, che sia via nave o terra, è sorvegliato dai voryer. Accedere ad essa è complicato, ma non impossibile. Essendo la capitale, è una città che è anche un importante snodo commerciale. E lì arriva gente da ogni parte del mondo, sebbene i controlli siano sempre più serrati."
Lo vide pensarci ancora un po', poi si voltò verso di lui guardandolo ancor più serio. Pensieroso. Non sapeva come interpretarlo, ma - ammesso che non fosse uno squilibrato, e a meno che lui non stesse capendo un cazzo di niente della situazione, non credeva di dover avere poi molto da temere; ma era comunque meglio tenere il pepe nelle mani. Una regola fondamentale del mondo: chi picchiava per primo, picchiava due volte.
"Quindi, vuoi raggiungere Tottori per assassinare Ubaste e Baset. Chiunque essi siano. Perché? Quali interessi avrebbe un mandante nel vedere morti i consiglieri di una nazione straniera?"
Ci pensò un po'.
"Mi sono stati assegnati come obiettivo. Per le mie funzioni, preferirei non dire altro, spero non ti spiacerà. Sarebbe comunque qualcosa che, a voi, non potrebbe fare altro che piacere."
"Piacere..."
Quello lo sorprese. Gli parve quasi turbato.
"Se non per mera vendetta nei confronti del mio popolo, non so quanto potrebbe farmi piacere veder cadere mio fratello e con lui i suoi consiglieri."
"Ah, ma chi se ne frega di tuo fratello! La sua caduta - possibile, non lo nego - potrebbe essere una conseguenza della mia operazione giunta a buon fine, qualora ci avessi visto giusto su come abbia girato questo paese. Non lo nego! Saggio Moshè, come sa bene un uomo saggio come te: i deboli devono morire. Vedremo chi sarà tra me e loro. Ma, santo cielo, tu più di tutti dovresti voler vedere qualcosa di simile!"
"Hanno schiavizzato il tuo popolo, e poi lo hanno decimate, come fossero bestie da soma. Ma rispetto le tue motivazioni."
"Massì, fa un po' quel cazzo che ti pare. L'importante è -"
"Tuttavia, sono disposto ad aiutarti, Fumetsu. Troppo a lungo gli Yhudim hanno sofferto, mentre Elohim ignorava il loro pianto..."
Ecco. Meraviglioso. Non poteva chiedere di meglio.
Sennonché una folata di vento improvvisa spinse l'agnello ormai recuperato a scappare di nuovo - razza di coglione!
"Ma che cazzo fa!" si lasciò scappare, ma ormai Moshè era lontano, pronto a inseguirlo nel crepaccio in cui si era imbucato.
Quando giunse all'apertura del crepaccio, ormai davanti a lui non si vedeva più alcuna traccia dell'agnello o di Moshè. Solo un'oscurità risucchiante e micidiale. Si guardò attorno. Bhe, Chana sarebbe sopravvissuta benissimo a loro due, su questo poteva giurarci.
Camminò nel cunicolo dalle irregolari pareti in pendio per un minuto buono, e per poco non urtò una roccia calcarea che sbucava dal soffitto fin quasi al pavimento, da cui invece ne sbucava una identica e speculare. Una stalattite. Non ne aveva mai viste prima dal vivo. Le osservò per un po' nella penombra, salvo poi rendersi conto che quella penombra fosse troppo poco oscura in quel punto della caverna, anche con gli occhi ormai abituatisi all'oscurità.
Una strana luce proveniva da una grotta, poco più avanti. Intravvide la figura di Moshè. Gli si avvicinò, ma non gli chiese nulla, perchè l'atmosfera in quella piccola insenatura nella montagna - con quel piccolo cespuglio isolato al centro dell'ambiente, con il vento che soffiava placido ma gli pareva sempre più incessante chissà da dove, coi sassolini sparsi qua e là che giurava fossero sul punto di vibrare, gli strozzò in gola qualsiasi domanda.
 
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view post Posted on 17/10/2018, 18:29     +1   -1
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"Questo è il mio nome per sempre.
Questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione."
(Es III, 15)

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Uno strano silenzio regnava in quella caverna. Moshè appariva disorientato, probabilmente tanto quanto lo era Hakurei. La presenza di quel cespuglio rendeva la scena quasi paradossale, come se un unico baluardo di vita fosse sopravvissuto per miracolo alla fredda aridità che lo circondava. L'aria intorno a loro pareva satura di tensione, per un motivo in apparenza inspiegabile. Quando i sassolini ai loro piedi smisero di tremare, i rami del cespuglio s'accesero di una fiamma candida, tenue. Incuriosito dal misterioso evento, il pastore avvicinò la punta del suo bastone alle lingue di fuoco - eppure, né il legno né le foglie bruciarono. Poi, una voce giunse alle loro orecchie. Calda, magnetica. Era vicina, tanto quanto lontana. Pareva provenire dal roveto, ma al tempo stesso dava l'impressione di essere ovunque, di permeare le pareti rocciose della caverna... e il loro stesso corpo, i muscoli, gli organi. Persino il cuore.

Moshè. Hakurei.
Toglietevi i sandali dai piedi, perché il luogo in cui vi trovate è una terra santa.

Moshè si voltò appena per incontrare lo sguardo di Fumetsu - o di chi, a quel punto, pareva in realtà chiamarsi Hakurei. Non ne sembrò sorpreso, del resto era plausibile che il giovane avesse usato un prestanome per nascondere la sua vera identità, a detta sua per proteggere la comunità che lo aveva accolto. Ciò che più lo turbava, era la situazione paradossale che stava vivendo. Di avversità, durante la sua breve vita, ne aveva affrontate molte... eppure perché, in quel momento, titubava? Con un po' di timore ad insozzare la sua voce, chiese: - Chi sei tu?

Io sono colui che sono.

- Non comprendo. - rispose incerto l'uomo, curvandosi leggermente in avanti, come schiacciato da un macigno invisibile. Le fiamme del roveto si fecero più vive, come alimentate da un soffio che non apparteneva a quel mondo.

Io sono il Dio di tuo padre, dei vostri antenati. Il Dio di Avrahàm, di Yitzhaq, di Ya'aqov.

Nell'udire quelle parole, Moshè non poté che spalancare gli occhi per lo stupore. A quel punto, come pervaso da una foga inaudita, prese in mano i sandali e li gettò via, senza pensarci due volte. Persino Hakurei fu colto dalla stessa sensazione... e non solo. Poteva percepire il cuore pulsare come se volesse scoppiare, la mente annebbiarsi, le certezze che aveva sgretolarsi come fango. Un nodo alla gola gli impedì di dar voce ai suoi pensieri, qualsiasi essi fossero. Era come annullarsi, come se ciò che aveva creduto vero fino ad allora crollasse, dilaniato da un vento impetuoso. E non era frutto di un ragionamento costruito. No, sentiva quella distruzione dentro, nelle sue stesse viscere. Hakurei, l'Immortale, colui che aveva fatto del raziocinio e del tornaconto personale il proprio nindo... in realtà, esisteva solo nella misura in cui aveva creduto di esistere. In quel momento, il suo animo urlò un nome. Il nome di chi aveva in pugno il suo spirito. Elohim.
- Che cosa vuoi da noi? - gridò Moshè, in un misto di agitazione e curiosità.

Ho osservato la miseria del mio popolo a Sakyū e ho udito il suo grido. Sono sceso per liberarlo dalle catene della schiavitù. Per farlo uscire da questa nazione, verso un paese dove il vento ha il suono della mia voce. Ora andate. Io vi mando da Userkaura.

Fu allora che un terrore genuino e spiazzante s'impadronì dell'anima di Moshè. Una paura che anche lo shinobi riuscì a cogliere, dai movimenti del suo corpo. L'uomo indietreggiò di qualche passo, fino a trovare appoggio sulla fredda parete di roccia.
- Io? Chi sono io per guidare questo popolo? Forse non mi crederanno, non mi ascolteranno! - urlò, quasi come se fosse sul punto di avere un attacco di panico.

Ti insegnerò quello che dovrai dire.

- Ma io ero loro nemico. Ero il principe di Sakyū, il figlio dell'uomo che ha fatto strage dei loro figli. Hai scelto il messaggero sbagliato. Come posso parlare con queste persone? - ribatté Moshè con insistenza, per motivi che ad un comune mortale sarebbero apparsi più che comprensibili. Di lui Hakurei sapeva ancora poco, nella misura in cui lui glielo aveva concesso, ma la sua logica era innegabile. Neferkaura era il despota che aveva comandato l'assassinio dei neonati, così come la riduzione in schiavitù degli Yhudim... e il fato aveva voluto che lui, Moshè, venisse cresciuto come principe di quel regno fondato sul sangue e sul sudore di chi, adesso, avrebbe dovuto convincere. Come poteva Elohim pretendere questo da lui? Eppure, quello era il suo volere perentorio, indiscutibile. Le fiamme del roveto ardente cambiarono colore, tingendosi di vermiglio, come un fuoco vivo ed inestinguibile che alimentò quella stessa voce che li aveva accolti.

Chi ha dato una bocca all'uomo? Chi lo rende muto, sordo, veggente o cieco? Non sono forse io? Ora andate!

Tutto intorno a loro tremò, scosso dalla voce di Elohim. La roccia, i sassi, persino le loro interiora vibrarono di fronte al suo volere. Poi, improvvisamente, la voce si quietò e le fiamme tornarono candide. Come tentacoli dolci, le lingue di fuoco si diramarono dal cespuglio, fino ad abbracciare i due visitatori sconvolti. Un tocco morbido e caldo, come quello di un padre che tocca con mano decisa la chioma dei suoi figli dopo aver rimproverato il loro comportamento.

Oh, Moshè, io sarò con voi quando andrete dal sovrano di Sakyū, ma Userkaura potrebbe non ascoltare. Stenderò dunque la mano e colpirò la sua stirpe, con tutti i miei poteri. Terrai in mano questo bastone Moshè, con il quale tu compirai i miei prodigi.

Fu allora che, prima di ritirarsi verso il cespuglio di rovi, le fiamme avvolsero il bastone che, fino ad allora, l'uomo aveva usato per difendere il suo gregge dagli sciacalli. Lo stesso che, da quel momento in avanti, Moshè sarebbe stato chiamato a sollevare per proteggere la sua gente dalla crudeltà dei voryer al servizio del Tyrant. Lentamente, il fuoco candido si esaurì, insieme all'elettricità che saturava l'aria che respiravano. Il nodo alla gola di Hakurei si sciolse, ma soltanto dopo che le ultime parole di Elohim giungessero alle loro orecchie. Poi, quando tutto fu quieto, il belato di un piccolo agnello - levatosi lontano, fuori da quella caverna - catturò la loro attenzione. Ancora scosso e pieno d'interrogativi, Moshè cercò lo sguardo del ragazzo che aveva condiviso con lui quell'esperienza ai limiti del comprensibile. Certo di trovare nei suoi occhi lo stesso smarrimento che s'era impadronito del suo cuore.

Io sarò con voi.

Per i meno avvezzi, specifico (per regolamento) che i dialoghi del post sono un arrangiamento di quelli presenti ne "Il principe d'Egitto".
 
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view post Posted on 21/10/2018, 14:24     +1   -1
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Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre.

(Umberto Eco, Il nome della rosa, pg 550)


Io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e
chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.


(Gn 4, 14)





Un cespuglio isolato, al centro di una caverna, privo di luce - era qualcosa che non aveva senso, avrebbe detto in altre circostanze, ma non era quello che lo premette in quel momento: un cespuglio infiammato, di una fiamma che non consuma, blu come le fiamme perfette e prive di ossidazione come quelle di qualcuno - o qualcosa - che conosceva bene.
Era lui?
No, impossibile: era un'energia diversa, altrettanto profonda e magnetica, ma più calda, era come se fosse intangibile - il bastone di Moshè posto in mezzo alle lingue di fuoco, il cespuglio che non sembrava disgregarsi nel naturale processo distruttivo di una combustione - e quella combustione.
La sentiva premere nella sua testa con tutta la forza del suo spettro elettromagnetico, irreale, micidiale, come non non appartenesse a questo mondo. Un richiamo confuso, mentre la sua gola si annodava, impedendogli di dire qualsiasi parola, quasi di respirare. Era inginocchiato, sofferente, come se si stesse annullando. Le parole che gli giunsero avevano un peso marginale in quel momento, poichè quella sensazione, già provata in precedenza, ma mai con tale intensità - una sola volta forse, ma la sua mente gli pareva annebbiata, come se non riuscisse a ricordarlo in modo nitido, come del resto gran parte di quel giorno -, e dunque prese i suoi scarponcini e li gettò via nella speranza che cessasse, ma nulla.
Si guardò attorno in quel momento, e gli parve che, in quel suo stato allucinato, ogni cosa avesse una forma diversa - perfetta, cristallina, pura: ogni cosa si muoveva in un quadro preciso e completa, che aveva in sè ogni domanda e ogni risposta, ogni passato e ogni cosa sarebbe stata in futuro, nello stesso istante, e all'epicentro di quelle radiazioni, un grande fascio luminoso, così intenso da annullarli tutti quanti, a squarciare il reticolo che governava il loro spazio-tempo. Era come essersi svegliato da un sonno in cui si era mosso irrequieto per un tempo immemore: non si era destato ancora, non aveva sognato frattanto, ma non si poteva dire in quel momento che fosse ancora del tutto inconscio. Come una nube offuscante che si insinua nella selva a tarda sera, o alle prime luci del giorno, o in quei luoghi segreti e perigliosi privi di ogni luce, ecco che qualcosa gli invase la mente: la percepì appena, vagamente, perchè se l'avesse percepita nella sua interezza era sicuro che l'avrebbe distrutto immancabilmente, senza lasciare traccia, come i fuochi che infuriano in quel momento al di là di quella porta, ma ciò non gli dava pena, nè speranza o timore; ogni stato d'animo era eliminato, razionalizzato in un disegno più grande e meccanicistico.
Gli sembrava di galleggiare in uno spazio vuoto, mentre l'infinita griglia geometrica di fili scuri si stendeva attorno a lui, percorsa da minuscoli noduli di luce, alcuni adagio, altri così rapidi e veloci che a stento poteva asserire che fossero mai passati da lì in quell'istante. Ricordava vagamente, uno dei pochi ricordi concessigli in quel momento, che una volta aveva osservato un cervello umano al microscopio nel laboratorio del dottor Akamatsu, e nella fitta rete nervosa di fibre e circonvoluzioni aveva intravisto la stessa labirintica complessità, con la differenza che in quel frangente stava osservando un cervello morto e statico, mentre questo trascendeva la vita stessa.
Era come se, nella sua immane complessità che trascendeva la parola, stesse assistendo al funzionamento di una mente gigantesca, intenta a contemplare l'universo di cui è causa e artefice al contempo, e di cui lui - misero ammasso di materia senziente! - non era che un'infinitesima parte.

Una visione - o allucinazione, non aveva ancora ben chiaro i limiti della sua giurisdizione, e quale senso specifico attribuire loro - che si protrasse soltanto per un momento, dopodichè i piani e i tralicci cristallini delle forme, e delle interazioni in costante movimento e mutamento baluginarono e cessarono di esistere, mentre una voce simile a quella di una divinità barbara e adirata riempiva ogni parte della stanza - non era del tutto incosciente di quanto stava succedendo, anzi non lo era in alcun modo, benchè lo stesse osservando da una prospettiva diversa, più alta, perfetta e completa. Che lo stimolava ad allungare la mano per provare ad afferrarla, a ghermirla, ad arrestarla nel suo corso, a fermare un quadro così bello.
Si sentì portato su, in alto, avvolto in ogni sua molecola da quella sensazione, e dai varchi di quelle fiamme gli parve che il Tempo non avesse più senso in quegli istanti e scorresse all'indietro, o forse, dopo poco potè constatare come ogni istante avesse mai occupato la sua materia - o quanto soggiaceva come reale matrice della sua materia - gli si presentasse in perfetta sovrapposizione: ecco il dialogo con Moshè, ecco Chana e la battuta di caccia, la superficie del deserto sconfinato e in fiamme con la montagna in lontananza, Fukagizu, i funerali dei suoi genitori, Matatabi e Kawagoro, la ragazza nella locanda, l'entrata ad Abducalsar, Setsuna, e l'Eremo e Urako, Akamatsu, l'Accademia, l'infanzia e Haku, Sentomaru, Ganshuk, Rei, Guarda-La-Luna, e ancora indietro, come se tutto fosse stato riavvolto a gran velocità ma al contempo istantaneamente accessibile - e ogni cosa andava bene, come se sapesse che tutti quegli avvenimenti causati da qualcosa che ora stava osservando e che l'avevano reso ciò che era fossero stati affidati a una custodia più sicura.

Ecco perchè loro... Ecco perchè io...



Nel momento stesso in cui qualcosa in lui cessò di esistere, sentì qualcosa pervaderlo e renderlo davvero Immortale. Un missionario mandato su questa terra, e incapace di esservi scrollato.
Un saluto, un abbandono, la regressione stava rallentando. Il Tempo cominciò a riprendere il suo corso naturale, e tutti quei volti e quelle immagini gli sorrisero allegramente. Lo ricambiò, senza sofferenza.
Come il pendolo oscillante giunto al limitare del suo arco, sembra immobilizzato per un istante che pare eterno, come se qualche forza in primo acchito nebulosamente misteriosa gli ordinasse di fermarsi, prima di iniziare il ciclo successivo, così qualcosa invertì la propria rotta, come se un neonato fosse stato spinto da una mano invisibile che lo guida e lo ha sempre guidato in ogni momento a svegliarsi di nuovo, in una stanza nuova, pronto ad adempiere al proprio scopo.


Moshè lo guardava stranito. Chissà se anche lui aveva avuto quell'esperienza. Ne dubitava. Non in quella forma. Come poteva dirlo?
No no, si disse, ne era sicuro.
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Era stato anche lui lì in quel momento. E, a quanto sembrava, quell'energia non era stata sufficiente a schiacciarlo. Già, era stato schiacciato come un verme. Se quell'entità, chiunque fosse stata, avesse avuto il desiderio di ucciderlo, ovviamente, ci sarebbe riuscita come nulla.
Si era limitata invece a dare sfoggio della sua potenza su di loro, mandando così il suo luogotenente e il suo alfiere a compiere le sue mansioni. Davvero ottimo.
"Hai qualche idea su come dovrei interpretarlo?" gli disse ancora ansimante.
Aveva sfruttato quell'occasione per poter accedere a quanto gli era possibile fare in autonomia, questo era ovvio. Non sapeva come fare, nè come arrivarci, nè se fosse possibile, ma gli era indispensabile se voleva ancora muoversi in questo mondo senza più alcun terrore, senza affanno, senza il brivido dell'inatteso pronto ad annullarlo senza preavviso, poichè, come ben sapeva, l'uomo che scorge nell'arazzo il filo che tutto ordisce si fa carico del mondo, e facendosene carico diviene finalmente padrone del proprio destino.
Era stanco e spossato, lo vedeva - come se rischiasse di cadere. Doveva avere avuto un effetto simile anche sul suo fisico una simile visione.
"Di idee in merito ne ho tante... e nessuna. Fatico a credere che quanto sia accaduto sia reale. Al tempo stesso, dentro di me sento che non può essere altrimenti."
Già. Il prescelto di un Dio. Che indica loro la via. E da cui sente pendere ogni istante della sua vita che vivrà da qui in avanti, finchè quella storia non sarà conclusa. Ogni cosa era chiara. Ogni forma tracciata. Nessuna linea può essere cancellata. E la sua linea, era già stata tracciata da un pezzo.
Il respiro ormai più regolare, strinse le spalle a Moshè e gli gettò dritto negli occhi il suo acceso e onesto sguardo: "Non pensi significhi qualcosa?" gli disse.
"Elohim ci ha scelti... Ha scelto te innanzitutto, ma secondariamente me. Per liberare la tua gente. E in un certo senso - una gente a cui anch'io sono legato."
Che curioso scherzo del destino. Ma questo, ovviamente, era già in essere da tempo immemore. L'intreccio di sentieri che avrebbe generato questa totale e assoluta resa dei conti di un percorso compiuto, come un serpente che si morde la coda, girando all'infinito senza fine nè inizio, come qualcosa di preordinato in ere prive di sentieri, prive di creature in grado di percorrerli.
"Anche sforzandomi, non ne comprendo le ragioni. Perché me? Dicono che i suoi piani siano comprensibili agli occhi dell'uomo, ma anche se la mia intera vita fosse parte di un suo progetto... non ne capisco il valore. Perché farmi trovare e crescere da Neferkaura, per poi divenire guida degli Yhudim?"
Lo vide staccarsi dalla parete, più sicuro. Lentamente andò a recuperare i sandali, con lui al seguito. Il suo fedele alfiere.
"Non nego che queste siano domande opportune. Ma chissà - " e lo riguardò con un mezzo sorriso: " - Forse avrà un senso, che ci verrà svelato a tempo debito. Siamo chiaramente tra le mani di qualcosa di più grande di noi."
Esattamente, un qualcosa di più grande di loro. Qualcosa che stringeva il loro destino, che aveva in sè i loro galoppini, e in Moshè la sua mano operatrice.
"Ha detto che sei uno di noi... Hakurei."
Sapeva il suo nome, ormai, ma in lui sentiva di non scorgere alcuna malizia, benchè lo avesse ingannato. Appariva quasi fraterno, forse in virtù di quanto appena vissuto. Un ottimo indizio.
"Pare di sì. Forse lo sapevate in cuor vostro, per questo mi avete accolto" concluse, ironico.
"Dobbiamo andare da Userkaura a quanto pare... Te la senti?"
PARRICIDII

Sembrò pensarci a lungo, e in modo doloroso. Un altro ottimo indizio.
"Vuoi la verità? No. Per quanto disprezzi ciò che è stato fatto al mio popolo... non riesco ad odiare Userkaura. Ero come lui un tempo. Io ero loro nemico, Hakurei. Li ho visti lavorare per me. Ho persino ordinato che uno di loro fosse frustato per avermi disobbedito, una volta. Quel che temo, è tornare da lui e non vedere un despota... ma mio fratello.
Ma se questo è il volere di Elohim, così sia.
"
Gli annuì comprensivo. L'intervento di Elohim avrebbe potuto far scattare qualcosa di simile in molti sciocchi individui, e lui in quel momento doveva apparirlo quanto possibile, fino a che avrebbe potuto plaudire al già fatto: "Posso capire. E perdonami se sono stato duro, prima, quando ti ho rimproverato tra le righe per questi sentimenti verso tuo fratello.
Qualora ciò ti venisse più duro del previsto, ricordati che io sono al tuo seguito. Non metto in dubbio la tua fermezza Moshè; dico solo che, quando lo riterrai opportuno, potrò andare io da Userkaura. Sperando che ci ascolti, ovviamente.
"
"Non voglio essere duro con te, Hakurei. Come potrei, dopo il fardello che ci è stato affidato?
Non è mia intenzione chiedere dettagli sul tuo mandato, se ritieni che questo possa mettere a rischio la sicurezza della mia comunità.
"
Già, è vero. Era quello il suo scopo, chissà perchè gli ultimi pensieri su Elohim e Moshè glielo stavano oscurando. Non aveva bene idea del perchè un simile sentimento potesse offuscargli il suo interesse personale in quel momento - e che anzi, faceva coesistere il crescere di quella sensazione come intimamente connessa all'avverarsi di un suo vitale obiettivo.
"Bhe, però è ad essi intimamente collegato" si disse.
"La rovina di Ubaste e Baset sarà linfa nuova per l'Eremo, privato così di suoi nuovi nemici. E così lo sarà anche per me."
Doveva apparire ferito a una simile constatazione, ma anche estremamente comprensivo.
"Una domanda, però... sento di dovertela fare.


Quando arriverà il momento, potrò affidare a te la mia stessa vita?





"Sulla mia fedeltà e onestà è pronto ad impegnare la sua vita. Quale meraviglia!"
" - Posso capire la tua diffidenza. Ma credimi, ciò che ho ricevuto in questi due giorni... Era qualcosa che non pensavo avrei mai più provato. È come... se avessi nuovamente una famiglia adesso. Una famiglia con cui poter essere finalmente me stesso, senza stare sull'attenti per paura di venire pugnalato alle spalle.
Se cerchi un compagno forte e valente a cui affidare la tua vita, sarei disonesto a dirti di farlo; ma qualora tu cercassi solo impegno e fedeltà, se non come nei tuoi fratelli di vecchia data, almeno un qualcosa che vi si possa avvicinare; allora sì in quel caso, non avrai altro che sinceri affetto e fedeltà alla nostra missione.
"
Lo sguardo disteso di Moshè valeva più di mille bastoni dal potere d'intercessione divina.
"Contro Userkaura, Ubaste e Baset... Io sarò con te, fratello."
Ricambiò la sua stretta.
"E soprattutto per gli Yudhim, fratello Moshè."
Si guardò attorno.
"Forza ora... Usciamo da qui."
"Sarà meglio."


"Quante belle parole, Hakurei."

Una risata sottile, mentre si accinsero ad uscire, Moshè in testa e lui a seguirlo.

Era lui, non c'era dubbio. A fagiolo. Gli sarebbe servito il suo aiuto per il nemico che si apprestava a contrastare.
"Il cucciolo è cresciuto, a quanto pare" ripetè nella sua mente, senza sapere se lo stesse a sentire, ma per lui in quel momento pareva un'ipotesi piuttosto probabile - aveva sentito ogni cosa fino a quel momento, in fondo.

"Non ti conviene portare il peso di promesse che non puoi mantenere."


Moshè era qualche passo più avanti, e così lui lo avanzò seguendolo tra le ombre cupe della grotta.


"Questo perchè non hai capito nulla, come al tuo solito. Non per offendere la tua intelligenza, ma è evidente chi tra i due qui sia dotato del maggior acume, non sto certo a dirtelo - e s'è ben visto i tuoi pavoneggiamenti a cosa sono serviti sulle Montagne Grige, e alle porte di Kawagoro: a farti fregare, come un allocco, da un povero mortale.
Sono solo uno sprono queste mie parole, Matatabi pensò lo capirà; poichè mi è indispensabile il suo aiuto in questa santa missione per la nostra salvezza che ci attende.
E' bene che possa avere l'opportunità, se mi giocherò bene le mie carte, di poter fare di questo tal zimbello Moshè la mia borsa. Guasterei solamente il mio arguto intelletto e la mia sudata scienza spendendo tempo con un simile minchione se non fosse per mio semplice trastullo e interesse personale.
Non riuscivo a capire bene cosa fosse ciò che provavo per lui, dopo il termine di quell'esperienza nella grotta - che sentivo pian piano, e pian piano germogliare dentro di me come una pianta le cui radici si insinuavano in ogni anfratto del mio cervello -, ma adesso, e solo adesso, credo di aver capito cosa possa essere... io odio quest'uomo. Sento di odiarlo quanto odierei le pene dell'Inferno. E' possibile che lui avesse saputo fin dall'inizio di un simile destino - possibile ma improbabile, e tuttavia per ciò che covo dentro questa minima possibilità mi spingerà a crederlo come fosse una certezza.
A quanto pare egli mi rispetta, e mi stima in un qual senso - come potrebbe essere altrimenti, visto che sono il solo con il quale ha condiviso un'esperienza simile. E' pericoloso, è vero, ha l'appoggio di un potere divino, è vero, ma anch'io se le cose volgeranno a mio favore potrei godere di risorse di tal fatta. Anch'io sono stato scelto, se così vogliamo, da un'entità divina. E' un demone? Forse è vero ciò che diceva l'anacoreta: dei e demoni sono la stessa cosa.
E' un dio forte, è vero; e potente, ma non abbastanza lungimirante da riuscire a vedere in me il suo araldo, come fecero i gatti al Tempo con Urako, subito ricreduti dalla saggezza di quella ragazzina così ingenua e inoffensiva a ritornare sui loro passi.
E in nome di quelle forze che desiderano eternamente il Bene e operano eternamente il Male, io riporterò il giusto ordine in questa vicenda, che si concluderà immancabilmente con la caduta di Ubaste e Baset, seguiti presto da Moshè e dal suo falso sedicente dio.
Qualcosa che non mi è nuovo, dunque perchè dovrei esitare stavolta? Ma come fare?
Non certo con la forza che li si potrà vincere, e non tanto perchè indubbiamente ne sono sprovvisto, ma perchè ogni persona dotata di saggezza sa che un nemico sconfitto con la forza è sconfitto soltanto a metà. Userò dunque le altre mie doti, stenderò dunque la mano e porterò il suo protetto alla dannazione con ogni mio prodigio. So ancora troppo poco della corte di Userkaura, se non che Moshè è dotato di fermezza, ma di indole franca e aperta - per quanto lui, come ogni buon citrullo, possa pensare il contrario - , tanto da reputare come onesti uomini coloro i quali lo sono solo dal di fuori. Eppure lo avevo anche avvisato ora che ci penso, poco tempo fa: "Io non sono colui che sono."
Di Userkaura cosa so? So che era sua fratello acquisito, vigoroso e imprudente, impulsivo e voglioso di menar le mani. Doti che dovrò sfruttare a mio vantaggio.
Come ancora non so, lo vedrò a tempo debito, scrutando anche come si evolveranno gli eventi: ciò che è certo è che in questo momento è già stata partorita in me un'idea, la terribile idea che, qualora il Fato mi assista, mi porterà nuovamente a trionfare... su un Dio. I pezzi sono già disposti sulla scacchiera; le prime tracce del disegno sono già stese.
L'Inferno e la notte porteranno questo mostruoso parto alla luce del mondo.
"



Tu, mia dolce gallinella,
dovrai restare ignara ed innocente
fino al momento in cui potrai plaudire
al già fatto. Discendi, dunque, o Notte,
che tutto rendi cieco sulla terra,
a bendar l'occhio chiaro e delicato
dell'indulgente Giorno,
e con mano invisibile e cruenta
cancella e strappa in pezzi il gran suggello
della natura che mi rende pallido.
Già s'ottenebra il giorno
ed il corvo dirige la sua ala
verso il bosco già fumido di brume,
mentre cedono al sonno ed al riposo
stanche, le miti creature del giorno,
e i tenebrosi agenti della notte
si levano a ghermir le loro prede.
Ti stupirai di questo mio parlare;
ma tieniti tranquilla:
le cose che son date con il male
nel male trovano la loro forza. (*)
 
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view post Posted on 4/11/2018, 11:55     +1   -1
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Uscirono quindi da quella caverna con passi più pesanti rispetto a quelli che li avevano condotti al suo interno. Con sulle spalle un peso che non avrebbero mai immaginato di ricevere - Hakurei in particolar modo, lui che aveva sempre agito su commissione come qualunque shinobi, svolgendo incarichi per conto di superiori nelle milizie di Konoha, oppure, come in quel momento, per adempiere ai suoi doveri nei confronti dell'eremo dei Gatti. Cosa doveva significare, per lui, essere investito di una missione santa da un Dio che, fino a qualche minuto prima, avrebbe potuto considerare al pari di un'invenzione nata per cullare gli animi e coprire di miele le amarezze di quel mondo ingiusto? Era arduo dirlo, ma nella sua mente qualcosa si era mosso, per ancorarlo a ciò che era e che forse mai nulla avrebbe potuto cambiare. Un approfittatore, un funambolo che aveva imparato a fare della menzogna virtù. Non credeva in nessuna delle parole che aveva pronunciato per rassicurare Moshè, che al contrario aveva visto in quella promessa la lealtà che, in cuor suo, sperava da ricevere dal ragazzo. Di sicuro, entrambi avrebbero collaborato per soverchiare il regime di Userkaura, chi per adempiere al volere di Elohim, chi per assicurare la giustizia richiesta da Sousui... ma cosa sarebbe accaduto, nel caso in cui le necessità li avessero messi su strade diametralmente opposte, soltanto il tempo avrebbe potuto dirlo.
Una volta fuori, trovarono Chana intenta ad accarezzare il soffice manto dell'agnello, terrorizzato come se anch'egli avesse vissuto la stessa esperienza affrontata dai due pellegrini. Lo sguardo smeraldino di lei era perplesso, più che curioso e lo stesso si fece stupefatto, quando Moshè si sedette al suo fianco, sciorinando con parole quanto più veritiere il miracolo consumatosi nella caverna.
- Questa è una meravigliosa notizia.
Avrebbe esordito così, stupendo i presenti con un sorriso smagliante, assai diverso dalle espressioni più preoccupate di chi aveva di fronte. Moshè fece per indagare, ma lei colse al volo il suo intento, afferrandogli il braccio come se fosse una sorella amorevole.
- Posso comprendere quel che provi, Moshè... e anche tu, Fumetsu. - e fece lo stesso con il ragazzo, lasciando che le sue dita sfiorassero appena la pelle del suo braccio, prima di avvolgerlo con affetto - Tuttavia Elohim vi ha scelti. Ha udito il pianto del suo popolo, il suo grido. Per tanti, troppi anni la nostra gente ha subito la tirannia di Neferkaura e della sua progenie. È ora che anche a noi sia concessa libertà e dignità, in una terra dove scorre latte e miele.
- È evidente che lei vive ancora dentro di te, Chana. - le rispose l'uomo con tono nostalgico, lasciando che la mente tornasse indietro di diversi anni, per concentrarsi su parole che aveva già udito. A quel punto la ragazza lo abbracciò, versando una lacrima. Non solo per il doloroso ricordo di ciò che avevano perduto, ma anche per la gioia di avere finalmente l'occasione di compiere il destino che Elohim aveva promesso agli Yhudim. Una sorte che tutti avevano atteso per interi decenni e che in quel momento trovava fondamento nell'impegno assunto da Moshè e da quel mercenario sopravvissuto agli orrori del deserto.
- Finché il suo ricordo e il suo coraggio rimarranno accesi come una fiamma indomabile nei nostri cuori, Meyer non morirà mai.

EkNWK

Quella stessa sera, banchettarono alla tavola di Nechama con l'abbondante selvaggina che avevano cacciato alle pendici del monte Oreb. L'anziano era stato subito messo al corrente da Moshè riguardo il volere di Elohim e, per festeggiare, aveva invitato al banchetto ogni uomo, donna e bambino della comunità, così che tutti potessero gioire della notizia di una liberazione imminente, per quanto ancora offuscata dalla cruda realtà. Convincere Userkaura a liberare chi ingiustamente era stato ridotto in schiavitù non era un'impresa che due uomini avrebbero potuto compiere con facilità, ma quei due, Moshè e Fumetsu, erano stati scelti dallo stesso Elohim... e con la sua benedizione, anche scalare le vette più alte del mondo diveniva un compito a portata d'uomo.
- Cari fratelli e amici, siamo qui questa sera per celebrare questi due giovani. Conoscete tutti Moshè, un uomo che un tempo consideravate un nemico, ma che con gli anni avete imparato a riconoscere come uno di noi. Un uomo che ai vostri occhi era figlio di Neferkaura, del nemico, ma che in realtà è - ed è sempre stato - il frutto dell'amore di Amram e Iochebed. Un uomo che, insieme a questo ragazzo, è stato scelto dallo stesso Elohim come volto della nostra liberazione!
Un grido si levò tra i presenti, un urlo che portava con sé il desiderio di liberare dai soprusi chi, a differenza loro, non aveva avuto la fortuna di sedere a quella tavola.
- Un ragazzo proveniente da nord, che Elohim ha salvato dalle grinfie del deserto. Un ragazzo che il nostro Dio ha rivelato essere uno di noi. Fumetsu, nostro fratello!
Tra i presenti fu Chana a gridare in quel caso, alzando in alto un bicchiere in legno colmo di ottimo vino rosso.
- È la loro dedizione e il loro impegno che questa sera Elohim ci chiede di onorare, fratelli miei!
Tutti a quel punto alzarono i calici, le coppie e i bicchieri, brindando per rendere omaggio a chi, da quella sera, sarebbe divenuto un'icona di speranza. Non per chi in quel momento godeva della libertà, del privilegio di bere e festeggiare, ma per chi invece era lontano da quel calore, ancora vessato dalla crudeltà di Userkaura e dei voryer. Consumato il lauto pasto, un maestoso fuoco venne acceso sulle rive del fiume ed attorno ad esso i più coraggiosi e disinibiti danzarono senza freni, liberi di esprimere anche con i movimenti del corpo la propria gioia. Chana in particolar modo diede mostra di grazia, bellezza ed eleganza, stringendo fra le mani una stuoia cremisi che faceva ondeggiare come lo stelo di un fiore accarezzato dal vento - e rivolgendo, di tanto in tanto, sguardi ammalianti ad Hakurei, come invitandolo a danzare con lei. Moshè e Nechama, invece, rimasero seduti alla tavola, forse intenti a parlare di dettagli più concreti, riguardo ciò che li avrebbe attesi da lì a breve. L'unico che, invece, non si era unito ai festeggiamenti era Lea. Il ninja della Foglia avrebbe potuto giurare di averlo visto lontano dalla folla, attraverso il fuoco scoppiettante, sulle sponde del fiume Yeor, immobile ed intento ad osservare le sue acque placide, in attesa o forse alla ricerca di qualcosa che non avrebbe potuto trovare là dove, al contrario, gli altri si stavano divertendo.

Insomma, ruola pure quel che vuoi. Puoi scegliere solo uno dei tre possibili interlocutori - fammi sapere chi, così concordiamo i dialoghi.
 
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view post Posted on 29/11/2018, 17:17     +1   -1
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The Chair she sat in, like a burnished throne, Glowed on the marble





Così fuoriuscì alla luce del sole insignito di quella nuova missione che avrebbe avuto solo il segno della sua reale natura, quando avrebbe eseguito la sua vendetta sopra ogni cosa. Quando il binario di quella storia già segnata fin dagli albori dell'uomo avrebbe trovato la mano operosa di un nuovo regista a plasmarla, alterarla, rifoggiarla, e in questa sua futura magnificente opera di regista occulto li avrebbe messi tutti a nudo, sospinto ogni piccolo pedone dello scacchiere a rivelare le sue essenze e intimità allo spettatore ignaro e facilone. Accecato dal sole di mezzogiorno il mondo gli apparve un mostruoso abominio dai contorni spettrali, e quando i suoi occhi si riabituarono e così si riabituò il suo corpo costretto com'era in quell'involucro piacente e rassicurante solo i lontani e indistinti tramesti sullo sfondo rappresentavano i lasciti di quella atavica e onesta congiuntura. E tra i rumori attutiti di quello sconfinato cortile deplorevole, il silenzio della terra, che nutre come una Madre ogni sua piccola vita, cosicchè dopo possa nutrirla a sua volta con la sua morte; quel confuso silenzio primordiale trovava dimora fin dentro il cuore del mondo - con il suo mistero, la sua grandezza, la stupefacente realtà del suo intimo segreto.
Parlarono e discussero e informarono Chana dell'accaduto, la quale fu entusiasta. Si fidava molto di Moshè, questo era evidente. Avrebbe potuto essere una pedina fondamentale, se fosse riuscito muoverla e piazzarla con accortezza. Si incamminarono dunque per fare ritorno al villaggio, e nel pomeriggio erano già a metà del cammino sotto la luce sempre più pallida che illuminava il deserto, fino ai margini dell'orizzonte dove questi si perdeva in una lunga curva, e la terra si sollevava e si perdeva rendendo ogni cosa sfocata, come preludio di una tempesta in arrivo, e avanzò seguendo gli autoctoni lungo i crinali e le colline sabbiose con prudente lentezza, in quel perenne stupore con cui ancora guardava quella terra nuda e antica.

Quando tornarono al villaggio e raccontarono l'accaduto, vennero accolti come santi e fu indetto un banchetto in loro onore. Partecipò con entusiasmo e con quell'onesto e rassicurante sorriso sulle labbra che tanto gli si addiceva e che, come ben sapeva, nel corso degli anni gli aveva procurato l'odio e l'antipatia più viscerali o i più sinceri affetto e amicizia se non addirittura devozione, senza mezze misure. Un fuoco venne acceso in uno spiazzale, e due strimpellatori pizzicarono le corde girando i piccoli bischeri di legno duro finchè non furono soddisfatti. Sotto gli effetti dell'alcool, come dimentichi di ogni forma di pudore, alcuni si erano sbarazzati di giacconi e vestaglie e se ne stavano a torso nudo e sudavano anche se l'inverno del deserto era tanto freddo che il fiato usciva in forma di vapore, e le sagome cantavano e ballavano e si urtavano vacillando, e le ombre che disegnavano sul suolo davanti a lui, che seduto li osservava da spettatore esterno - Moshè e Nechama poco lontani alla sua sinistra - gli parvero ancor più uno spettro blasfemo totalmente alla ventura, primitivo, precario, privo di ordine, come fossero pura manifestazione di un atto di ribellione così sincero e familiare allo sguardo di chi teneva in pugno i loro destini e giudicava con occhio severo il loro operato, come esseri scaturiti dalla roccia primigenia e mandati, senza scopo nè perchè, senza nome e senza potersi distinguere dal proprio miraggio, a errare rapaci e condannati, muti e incatenati, come gorgoni emerse dalla Panthalassa in un'era precedente la nomenclatura e le distinzioni.
"Il vino ti ha reso più intraprendente, Fumetsu."
Si era ritrovato là in mezzo senza rendersene conto, forse riconoscendo in quella manifestazione la reale essenza della propria natura. Come c'era arrivato? Lo sguardo complice di Moshè - uno sguardo complice verso il suo onesto alfiere e fratello, meraviglioso! -, quell'imbecille di Lea in disparte (e chissà che non avrebbe potuto sfruttare anche lui e inserirlo nello scacchiere! Ci avrebbe pensato prima o poi), e Chana che lo invitava sommessamente ad unirsi a loro. Sembrava ben voluta da tutti là in mezzo. Rendersela vicina quanto più possibile non avrebbe fatto altro che giovare alla sua immagine nei confronti della comunità. Una simile occasione non poteva certo andare perduta.
"E perché? Stanno tutti ballando in fondo, e tu e Moshe siete quelli che conosco meglio."
"Devo essermi sbagliata allora, sei rimasto timido come ti ho conosciuto."
Le sorrise.
"È dura combattere la propria natura. Così come è dura conoscerla, in fondo."
"Come ti senti ad aver scoperto una cosa simile sui tuoi antenati?" gli chiese dopo un po', cercando la sua mano.
" - Non ti so dire. Strano inizialmente."
Rispose al gesto e si unirono alla danza, mentre lui pensava a come poter continuare.
"Forse questo dà un senso alla mia presenza qui, al vagare nel deserto, a tutto questo insomma. Ma chi lo sa."
" - Enigmatico come sempre."
Lui sbuffò e poi le sorrise.
"Nascondo il fatto di non avere molto da dire."
Si stava rendendo conto di quanto si fosse avvicinata. Era molto diversa dalla ragazza della locanda, non solo nell'aspetto. Chana era sicuramente temprata da una vita selvaggia, certo... eppure gli parve che in lei ci fosse un'infantilità ben più marcata, per quanto fosse possibile. Non voleva essere cattivo, ma le dava l'impressione di essere - ecco, in un certo senso - meno sveglia.
"Magari è davvero così. La tua presenza qui deve avere un senso... per me lo ha, Fumetsu."
Molto più abituata a costruire castelli di carta tra le nuvole, una pulsione innata nel cuore dell'uomo probabilmente, quella speranza nefasta che gli rende sopportabile la sofferenza annebbiando lo sguardo, e che la piccola bionda nella Foresta del Fuoco non aveva che in minima parte, riportata com'era costantemente alla sofferenza e ai mali del mondo dalle crudeltà giornaliere.
"- È possibile", disse e gigioneggiò un po' con la testa.
"Metti caso che con la mia vecchia banda fossimo una masnada di banditi. Con la tua mira con la lancia potrei aver trovato una nuova socia. Non ci vorrebbe nulla a fuggire dopo aver rapinato qualche stazione di servizio. Fidati non ci vuole niente."
Non era la prima volta che diceva qualcosa del genere. La vide ridere di gusto divertita.
"Ma ti senti?"
Una reazione anche questa differente, più ingenua e sguaiata. Erano davvero diverse. Rise anche lui, con maggior contegno.
"Chissà quante battaglie avrai combattuto, eppure ad intimorirti è solo una ragazza. Una contadina. Una cacciatrice."
"Una cacciatrice che sa usare le armi meglio di me, però."
"Non è come socio che ti voglio" disse infine lei, a bruciapelo. Di certo era molto più selvaggia della ragazza, come aveva già pensato. Forse saranno stati gli effetti dell'alcool, pensò, così come lo furono in un certo senso quella sera. Stava notando sempre più come fosse l'ideale per sciogliere le inibizioni, di qualunque genere - con la ragazza, a un certo punto, aveva iniziato a parlare a briglia sciolta, finchè a un certo punto non aveva smesso di parlare del tutto.
Ma con lei aveva avuto un effetto diverso. Forse aiutava a far uscire allo scoperto la propria vera natura - forte e arguta quella della ragazza, al di là delle apparenze, selvaggia e ingenua quella di Chana, anch'essa nonostante le apparenze. Rendere palese la propria vera natura. In quel caso, qualora fosse veramente così, avrebbe dovuto stare attento.
" - Mi conosci appena. Come fai ad esserne così sicura?"
E in fondo, a ben pensarci, poteva dire di conoscersi bene?
"Guarda che potrei davvero essere un pericoloso bandito" e alzò ironicamente le sopracciglia.
Perchè d'un tratto aveva provato tutto questo nei confronti di Moshè? Non se l'era ancora chiesto da allora. Qualcosa che gli era già accaduto in passato
"Che gira per il deserto in cerca di giovani ragazze da circuire."
Era come allora, nessuna differenza, concluse. Doveva far sì che il suo destino non dovesse dipendere così strettamente da qualcuno, e qualcuno in grado di schiacciarlo come un insetto al minimo cenno della mano. Era come aveva già detto a Matatabi: una santa missione per la loro salvezza. Per slegarsi da quei fili, per far sì che potesse realmente sognare quella terra lontana dove scorreva latte e miele e da cui li avrebbe presi sempre, ogni giorno.
"Ieri notte, in sogno, ho visto Meyer."
Il sangue avrebbe bevuto dell'agnello, prendendolo da quella terra. Chana s'era fatta seria, e lui la imitò.
" - Guarda che scherzavo, ti prendevo soltanto in giro."
"Mi ha detto che il tempo della libertà era prossimo... e che sarei rimasta al fianco dell'uomo che avrebbe affiancato il suo Moshè nel realizzare ciò per cui si era battuta fino alla morte."
Congelò all'interno, per un istante. Se lei fosse venuta davvero con loro - avrebbe dunque dovuto distruggere anche lei? Probabile.
" - Faremo il possibile."
Sarebbe stato un pegno da pagare per la distruzione di Moshè ed Elohim di conseguenza. Non avrebbe mai abbandonato Moshè, di questo ne era sicuro.
"Non può essere un caso il fatto che tu sia giunto qui, Fumetsu" la vide dirgli speranzosa.
Non ragionò tanto sul fatto che Moshè e Meyer fossero molto legati, e di conseguenza anche Chana, quanto sul fatto che quello fosse un ulteriore indizio che Chana non si sarebbe mai messa dalla sua parte della sua crociata. Avrebbe difeso Moshè ad ogni costo, in memoria di Meyer.
Renderle nascosta tutta quell'oscurità?
" - Ma sarà un'operazione disperata. E qualora non fosse disperata ci mancherà poco. Il rischio che ti attenderebbe è enorme, Chana."
"Lo so. Tuttavia sarei una codarda a rimanere qui. Sarebbe come tradire Moshè... e Meyer."
Intorno a loro le sagome ballavano sempre più convulse sotto la luce del fuoco e il suono degli strimpellatori, mentre loro due avevano smesso ormai da tempo. Doveva cercare di farla ragionare, maledizione! si diceva.
"Andare a caccia non è come stare in mezzo a una battaglia, sperando non ce ne sia bisogno", e le strinse leggermente i gomiti.
"È violento e brutale, più di ogni altra cosa, e la morte è sempre dietro l'angolo. Sarò scettico forse... ma Meyer non ti avrebbe mai mandato a morire in questo modo."
Doveva sfruttare l'influenza che pareva avere verso di lei, in ogni modo. Le prese il mento tra indice e pollice e le alzò il viso.
"Può essere solo una semplice e normale suggestione? Poco dopo avermi incontrato, poco dopo aver saputo che io e Moshè saremmo andati insieme sul monte Oreb, il monte di Elohim?"
Era rassicurante e premuroso - almeno sperava. Come il più infido dei demoni.
"L'ho sognato ieri notte, Fumetsu. Siamo partiti per il monte Oreb dopo il mio risveglio! Queste cose non sono frutto di suggestioni, come puoi pensarlo dopo quello che tu stesso hai vissuto?"
"Non vuoi ragionare in alcun modo, razza di stupida!"
Le sorrise comprensivo, come un maestro paziente fa con la sua sciocca allieva.
"Ma sapevi già il giorno prima che saresti partita con noi: prima che tu andassi a dormire. Pensaci, si incastra tutto alla perfezione."
" - Forse hai ragione. Forse Meyer non avrebbe voluto questo per me. Tuttavia, deve avere un senso. E anche se non lo avesse, sono io a voler rimanere al tuo fianco."
Niente, come un mulo. Non era più questione di ragionamenti, avrebbe dovuto capirlo da un pezzo. Razza di stupida!
"Vieni con me."

Non potè fare altro che seguirla, e la seguì sino alle rive del fiume. Le circostanze gli parevano sempre più dirette verso una sola direzione: prima o poi, per essere nuovamente al sicuro, avrebbe dovuto uccidere anche lei. Non doveva sentirsi in colpa per questo. Era qualcosa di necessario. Non gli faceva piacere, in alcun modo. Ma andava fatto. Non c'era alternativa. Lei stava prendendo una scelta. Si stava accollando le conseguenze delle sue azioni, come tutti. Tanto bastava. Non c'era perdono nè colpa: solo l'intrecciarsi continuo delle ratifiche nel campo da gioco: nulla più.
Restarono a fissare il fiume per un bel pezzo. E poi gli venne in mente qualcosa. Forse c'era ancora un modo per farla desistere, ma doveva andarci per vie traverse, come sempre, com'era ben abituato a fare chi non è ciò che appare.
"Venire con noi domani, sarebbe come un suicidio. E... io ho già perso troppo nella mia vita. Tutte le persone che amavo sono morte o disperse, nel migliore dei casi ormai il mio rapporto con loro è di semplice cortesia e conoscenza."
Uno sguardo affranto, sconsolato. Da chi ne ha viste troppe in breve tempo. Qualcosa che non gli era difficile, in fondo. Ma ormai ci aveva fatto l'abitudine. Ci si abitua necessariamente all'oscurità per sopravvivere, proprio come quando guardava quel fuoco, poco tempo prima.
"Capisco il tuo desiderio di vedere questo tuo proposito farsi realtà, di starmi vicino, e ti ringrazio sinceramente... non è una cosa comune per me, ultimamente. Ma capisci che... sarebbe un colpo da cui non tornerei più indietro se anche questa volta finisse come i quel modo."
Doveva dare l'impressione di parlare a briglia sciolta, a cuore aperto. Non credeva sarebbe stato arduo con una simile sciocca ingenuotta. Lei gli strinse la mano.
"Mi dispiace per ciò che hai vissuto, Fumetsu. Anche io ho vissuto lo stesso, quando Meyer è morta. Per me era molto più di un esempio da seguire... era un'amica, una sorella. La più cara che io abbia mai avuto."
"Sì, lo so. E lo immagino."
"Sento che anche tu, come me, hai qualcosa per la quale cerchi perdono. Noi Yhudim crediamo che l'acqua del fiume Yeor lavi via ogni peccato e turbamento. Chi vi si immerge, viene fuori da esso rinvigorito nell'anima."
Avanzò nel fiume e si immerse un po', attendendo che anche lui facesse lo stesso. Non gli diceva nulla di buono, ma che altro poteva fare: si immerse anche lui titubante, sperando che almeno in parte le sue parole avessero aperto una breccia, anche minima.
"Speriamo di non prenderci un accidente" disse, per sdrammatizzare, e sorrise debolmente. Chissà se la ragazza se era presa davvero un malanno infine. Le aveva lasciato il giaccone, alla fine. Era inutile, con lei era molto più in sintonia: non c'era scampo, ecco cos'era che lo inquietava di Chana. Era un essere al di fuori dalla sua sfera di influenza, a quanto pareva, al di fuori del suo spettro d'onda, fuori dalla sua sincronia. Fu in quel momento che capì come non ci fosse alcuna speranza.
"Io ho fatto la mia scelta, Fumetsu", gli disse dopo un po'.
"La tua preoccupazione nei miei riguardi mi fa piacere, credimi... ma preferisco morire per inseguire un sogno, che vivere nell'incubo di un rimpianto. Rimarrò accanto Moshè... e anche al tuo fianco."
Gli cinse i fianchi e attese un po', forse cercando qualcosa nel suo sguardo, non sapeva dirlo - e forse non lo sapeva neanche lei, razza di stupida!
"E tu, Fumetsu? Rimarrai al mio fianco in questa guerra?"
" - Sarò al fianco degli Yudhim e di Elohim... e quindi anche al tuo."
La vide sorridere.
"Dovresti essere più intraprendente, Fumetsu."
"Non è questo il punto."
No, non si rassegnava a quell'idea. Era lui il regista, avrebbe spinto le comparse ad agire al meglio nello sceneggiato, in ogni modo: poteva farlo - doveva farlo!
"Il problema è che, col tuo proposito, con la tua mancanza di timore verso la morte, sarei perduto. La paura della morte è la migliore amica che una persona possa avere, è questa una delle migliori cose che ho imparato lungo il mio percorso."
La vide stringergli il capo, e poi abbassarlo sul petto, come fosse una madre amorevole col figlio ormai divenuto uomo.
" - Tu sei già perduto. Lo leggo nei tuoi occhi. Hai vissuto temendo di perdere ciò che di più caro avevi... ma così facendo, non hai fatto altro che creare una nicchia buia in cui rifugiarti. Lontano dalla vita. Lontano dall'amore. Un antro oscuro, dove regna solo opportunismo e morte."
I suoi occhi si sbarrarono. L'unico moto sincero da molto tempo, in fondo, l'unico da quell'esperienza nel monte Oreb. Probabile.
Che avesse capito ogni cosa? Che sapesse? Doveva ucciderla adesso?
"Tuttavia, questa volta non voglio che tu rimanga solo... Hakurei."
Avvertì la presa ormai scemata, quindi le sfiorò le bracia e si divincolò piano, tornando eretto e fissandola negli occhi con i più sinceri dubbio e inquietudine.
"Se anche ciò che dici fosse vero - " riesordì, quasi sussurrando.
" - come potresti allora stare ancora al mio fianco, adesso?"
"Perché queste catene non ti si addicono. Perché anche tu, Hakurei... meriti di essere libero."
Suonava tutto come non sono poi così stupida come credevi. No. Esatto. Non lo era mai stata.
"Anche se questa libertà potrebbe essere terribile e dolorosa?"
Erano ormai vicinissimi, ma quasi non ci fece più caso, e lei lo attirò verso il proprio corpo , stringendolo a sè e baciando le sue guancia umide di sudore freddo.
"Preferisco il sangue della vita, che il miele della morte" e glielo sentì dire con una tale determinazione da ricordarle il ruggito di una fiera oscura e impavida proveniente dall'Inferno.
"Sarai con me in questa lotta, qualunque cosa accada?" e iniziò ad accarezzarle i capelli mentre sentiva crescere e esplodere dentro di lui qualcosa che non aveva mai provato prima. Una voglia feroce e brutale, perchè sentiva che in quel momento ogni maschera poteva cessare. Era come se, in un certo senso, gli avesse chiesto se avesse il male nel sangue, e benchè lui le avesse inizialmente risposto no, certo che no!", quello che da bravo idiota non aveva ancora capito era che l'unica cosa che desiderasse sentire da lui era la verità. Qualunque fosse stata, lei l'avrebbe subito capita e accettata, e da quella risposta avrebbe costruito pezzo a pezzo la sua sintonia con lui.
" - Sempre."
E sentì il desiderio assalirlo come se dal giorno della sua nascita non avesse fatto altro che aspettare questo momento. Erano ormai stretti in mezzo all'acqua quasi indistinguibili tra le tenebre della notte, mentre le piccole scaglie d'argento che la luna rifletteva sul fiume si increspavano, mentre si trascinavano fuori sulla riva. Sarebbe stato probabilmente solo un sollievo momentaneo, lo stava lievemente preventivando, in quei pochi attimi di razionalità, che rifugiandosi nella carne e nella forza di quel rapporto appena suggellato non avrebbe forse trovato quell'appiglio sicuro e invulnerabile che cercava e tanto gli serviva. Ma per quella notte sì, senza dubbio. Quella notte non avrebbe affrontato da solo la sua missione, ma con qualcuno a cui avrebbe potuto affidare la sua stessa vita, con cui avrebbe potuto unire il suo sangue finanche nella maledizione e corruzione di ogni cosa sotto la volta celeste.
Si sentì per la prima volta ubriaco di una persona. Forse era questo che provavano gli sciocchi innamorati, possibile. Se avesse potuto sbranarla senza farle del male, avrebbe divorato i suoi organi interni, le avrebbe rotto il collo e squarciato la gola con un morso.
Le loro sagome nere e allungate sulle rocce e nella sabbia sembravano disegnate dalla luna con tratto severo e implacabile, come fossero forme convulse e capaci di violare il patto che le asserviva alla carne e di procedere autonomamente sulla nuda terra senza riferire la propria esistenza al sole, all'uomo o a Dio.



La tua faccia è un libro aperto,
dove ognuno può legger strane cose.
Per ingannare l'ora,
è necessario assumerne l'aspetto:
il benvenuto portalo negli occhi,
portalo nella mano, sulla lingua;
datti l'aria d'un fiore innocente,
ma sii la serpe che vi si cela sotto.
Colui che sta per giungere
va ricevuto come si conviene;
stasera affiderai alle mie mani
la grande impresa che dovrà ottenere
alle future nostre notti
il dominio e la signoria sovrana.


Edited by Jöns - 29/11/2018, 18:22
 
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view post Posted on 15/12/2018, 13:09     +1   -1
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Per ben quattro volte il sole fece capolino dalle montagne ad est, insozzando di luce cremisi il villaggio, prima che i preparativi per la partenza fossero ultimati. Il giorno seguente alla festa, Nechama e Moshè lo avevano informato circa i dettagli relativi al loro viaggio e - cosa più importante - al modo in cui sarebbero entrati, probabilmente inosservati, nel distretto di Tottori. Avrebbero raggiunto la città di Kakami, nel cuore della regione di Hattori; si trattava di un noto borgo portuale, dal quale avrebbero potuto imbarcarsi, insieme a numerosi mercanti - e quindi, spacciandosi per tali - verso la capitale, su di una nave che avrebbe solcato per due giorni il fiume Yeor. Era stato Moshè a suggerire il piano, ben consapevole dei punti deboli di Tottori, nella quale aveva vissuto per ben ventitré anni - ed in tal senso, il suo contributo sarebbe stato fondamentale. Senza di lui, sperare di giungere indenni al cospetto di Userkaura era pressoché un'utopia e per questa ragione, Hakurei era stato scaltro ad entrare nelle sue grazie, seppur rimanendo pronto a voltargli le spalle quando il momento propizio sarebbe giunto. I preparativi, tuttavia, erano stati rallentati da un evento che aveva causato scalpore e preoccupazione all'interno della tribù di Nechama. Dopo la festa, di Lea si erano perse le tracce e vano era stato il tentativo dell'anziano capo di inviare uomini a cercarlo. Il padre di Meyer sembrava essere sparito nel nulla, come portato via da una tempesta di sabbia durata un giorno intero. Ciò tuttavia, per quanto potesse creare apprensione, non poteva bastare per ritardare ulteriormente la partenza di Moshè, Fumetsu e Chana. Elohim aveva espresso il suo volere e il destino di quella spedizione era senz'altro ben più importante di quello di un solo uomo.

Partirono quindi, con il favore di una brezza proveniente da nord e che pareva soffiare proprio in direzione di Tottori, la loro meta finale. Per tre giorni affrontarono le insidie del deserto, in sella a due cavalli concessi da Nechama; non erano molti - tanto che Hakurei e Chana si erano visti costretti a condividere la sella - ma era il massimo che l'anziano uomo poteva concedere loro. Solo un esemplare, infatti, era rimasto al villaggio - una bestia che, a quel punto, avrebbe portato sulla sua groppa le necessità di un intero villaggio, qualora i tre pellegrini non avessero mai fatto ritorno.
Giunti a soltanto poche ore dalla città di Kakami, l'inasprirsi del sole di mezzogiorno costrinse il gruppo a cercare riparo sotto l'ombra proiettata dalle palme di una piccola oasi, là dove loro e le bestie avrebbero potuto trovare, per un paio d'ore, acqua e riposo. Chana pareva esausta e, in fondo, non c'era da stupirsi: era la prima volta che affrontava un viaggio del genere, sottoposta ad avversità ben più pesanti di quelle proposte dal monte Oreb. Moshè invece pareva essere parecchio a suo agio, sebbene anche lui non potesse nascondere un po' di fatica.
- Sicura di stare bene, Chana? - chiese lui, accomodandosi a terra con le gambe incrociate e poggiando il dorso sul fusto di una palma.
- Sì. Mi serve soltanto una piccola pausa. - replicò lei, asciugandosi il sudore dalla fronte col dorso della mano.
Riposarono per un paio di minuti, durante i quali i cavalli ebbero modo di abbeverarsi - ovviamente dopo che i tre ebbero riempito le proprie borracce. Fu infatti dopo essersi concesso diversi sorsi, che l'uomo riprese nuovamente parola.
- Ormai manca poco. Una volta giunti a destinazione, dovremo essere bravi a recitare per ottenere il permesso di salire a bordo della nave. A differenza degli altri, non avremo merci con noi e ciò potrebbe insospettire i voryer. L'ideale, in questo caso, sarebbe fingere di voler raggiungere Tottori per concludere un affare con Rayan Farah, uno dei più potenti detentori del commercio di tabacco dell'intera nazione. - cercò di spiegare loro, dando per l'ennesima volta prova di essere un abile conoscitore della vita della capitale - Ma comunque, lasciate che sia io a parlare con loro.
L'idea sembrò convincere la fanciulla, la quale si fidava ciecamente delle capacità del più grande e, soprattutto, delle informazioni di cui disponeva per potersi muovere agilmente dentro Tottori... e del resto, cos'altro potevano fare lei e Hakurei, se non affidarsi all'esperienza di chi era cresciuto - non come schiavo, oltretutto - in quella città?
Durante la pausa, tuttavia, i sensi dello shinobi avrebbero captato qualcosa di strano. Si trattava di tracce di chakra, non molto potenti in realtà, le quali non erano molto lontane dall'oasi. Sembravano avvicinarsi, molto lentamente, e durante quel lasso di tempo il giovane ebbe modo di contarle. Tre, sette, quindici... sì, quindici uomini. Si fermarono a qualche centinaia di metri di distanza dall'oasi e lì parvero rimanere, immobili. Poteva trattarsi di viandanti intenzionati a godere del ristoro offerto dall'acqua e dalle palme, così come poteva trattarsi d'altro. Cosa - e chi fossero, soprattutto - era difficile dirlo. Sicuramente, era piuttosto strano che dei viaggiatori in cerca di riposo rimanessero nascosti dietro le dune, anziché raggiungere l'oasi.

 
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