La biografia di Hai Nan è accatastata assieme alle altre della sua classe; un vecchio registro polveroso negli archivi di Suna. Tuttavia la realtà dei fatti è molto diversa da come viene riportata, a parole rigorose, dallo scrivano. Hai "Kitsuen" Nan è il nome di un personaggio, non di un uomo, e la sua storia vive per non essere raccontata.
Suo padre era un mercenario, sua madre era irrilevante. Il vecchio aveva messo da parte un bel gruzzolo militando per Shodaime Tsuchikage, rischiando la pelle ogni due per tre, probabilmente accoppiandosi con altre creature, consenzienti o meno, lungo il confine.
Ma qui si parla di Daisuke Homura, che venne alla luce senza padre, partito in missione, e senza madre, morta di una delle tante malattie che possono colpire donne incinte in territori spietati. Al dottore parve ideale salvare il bambino, prematuro di due settimane, e tanto mingherlino da far fatica persino a piangere. Quando uscì dal grembo, sollecitato, tossì debolmente, e respirò rauco... destino?
Insomma, nessuno gli avrebbe dato molte speranze; e invece Daisuke crebbe, nonostante tutto, come un bambino curioso e tranquillo. Non aveva molti amici, e quelli che aveva li frequentava poco. Era piuttosto schivo, invero, e amava starsene solo. Il fratello di sua madre provvedeva a lui, dato che il vecchio non era quasi mai al villaggio, ma i soldi non mancavano mai anche per questa ragione, e Daisuke non disprezzò mai la figura paterna. Semplicemente, non era paterna.
A nove anni si iscrisse all'accademia di Iwagakure, a tredici divenne genin, a sedici chunin, e tale rimase, complici la poca attività e lo scetticismo di fronte al tanto declamato "Fervore di Iwa".
Ma andiamo per gradi; l'adolescenza di Daisuke portò con sé, assieme ai brufoli, alle missioni involute e alla pigra trasgressione tramite alcool un senso uniforme di stanchezza. Più di quanto non ne avesse prima, più di quanto non ne avrebbe probabilmente mai avuto. Se ne rimaneva lì, a guardare i coetanei superarlo in capacità o farsi una famiglia, senza che la cosa lo turbasse. Era solo, ora, davvero solo. Con nessuno più a badare a lui, Daisuke aveva raggiunto lo stato di quiescenza tacitamente desiderato fin lì. Non era un brutto giovane, anzi, e più di una ragazza gli si avvicinò. Ma le prime relazioni divennero presto un peso, e lo shinobi perse presto la voglia di coltivarle.
Così rimase per parecchio tempo; un letargo voluto e non voluto, amato e odiato. Ma, in definitiva, il ragazzo era troppo pigro per uscirne. I soldi non gli mancavano, come sempre, e dunque non c'era ragione di trovarsi un lavoro. Viveva sulle spalle del vecchio, e allora? Non c'era nessuno a spronarlo a fare altrimenti, e lui se ne rimaneva lì.
Finché non arrivò il giorno del giudizio. Il giorno in cui Homura Daisuke incontrò la vita, l'emozione capace di dargli un calcio abbastanza forte da svegliarlo, abbastanza forte da farlo precipitare in un oblio di fuoco dal quale sarebbe riemerso quasi quarant'anni più tardi.
Diciannovenne, missione grado B, Paese della Pietra. La situazione precipita in una A, e il ragazzo è solo. Ha nascosto il coprifronte, corre. Sa che finirà come il resto della sua squadra; sa che gli ANBU di Konoha fanno bene il loro dovere, non come lui, che è scappato da bravo coniglio. Cerca di nascondere le impronte, cerca di rendere il passo silenzioso, ma non è allenato abbastanza. Le macerie della Grande Ishi non possono nasconderlo in eterno. Vorrebbe eclissarsi, svanire come uno spettro, ma non può. Gli ANBU lo trovano tremante in un angolo, lo riconoscono, lo catturano, lo portano al loro campo base.
Qui viene interrogato, e decide, come ultimo, inverosimile atto, di non parlare, magari cercando una qualche strana redenzione. Sia come sia, cambia presto idea di fronte ai metodi collaudati di un tizio in impermeabile nero, e canta come un uccellino in primavera, abbandonando definitivamente nobili pretese che non erano mai state sue.
Alla fin fine, non era mai stato attaccato a nulla. Al villaggio, alla gente, a niente. Questo pensava, una volta in cella. Era un miserabile, si, e se fosse tornato ad Iwa l'avrebbero ucciso tra le risa dei bambini e gli sguardi severi degli anziani. Sarebbe sparito, se l'avessero rilasciato. Si sarebbe cercato qualche buco in cui ficcare la testa e morire.
Ecco le prospettive. La vita di Daisuke, shinobi di Iwa, finiva lì, da traditore. Ma non sarebbe stata in ragione delle sue intenzioni, del suo esilio volontario.
Una notte, dopo chissà quanto tempo di prigionia, un'esplosione sconvolse il campo. Potente, profonda, da far tremare la terra. I carcerieri si affrettarono a difendere le posizioni, ma una seconda esplosione strappò loro la vita, lasciandoli esanimi, carbonizzati, accanto alla cella. I loro volti contratti in un'espressione mostruosa.
Le fiamme strisciarono fin dentro la prigione, sfilando davanti agli occhi lucidi del chunin prigionero. Non poteva staccarli dallo sguardo tormentato e vitreo dei morti davanti a lui, dai loro volti neri, scarnificati.
Le urla del campo, il rumore della battaglia, tutto si perse nel crepitare della fiamma. E mentre l'aria andava consumandosi e la temperatura gli stringeva le viscere, Daisuke si lasciò morire. Avrebbe potuto tentare la fuga, forzare le sbarre già scosse, ma non ne aveva la forza.
Per la prima volta nella sua vita venne a patti con sé stesso, e decise di non meritare un'ennesima possibilità. Sarebbe sparito lì, cenere con la cenere, in un teatro di guerra. Chissà... magari ad Iwa gli avrebbero anche dedicato una lapide. Lasciò che il calore lo lambisse, che il fumo lo nascondesse per sempre... sarebbe volato via assieme alla cenere, e nessuno l'avrebbe mai più cercato. Chiuse gli occhi.
E li riaprì al mattino del giorno seguente. Mentre ancora cercavano, agonizzanti, di mettere a fuoco le circostanze, Daisuke già si dannava l'anima. Come faceva ad essere ancora vivo?
Poi, cercando di muoversi, l'illuminazione giunse inaspettata. Era coperto da qualcosa di umido. Un panno bagnato, magari? No, troppo pesante. Una lastra di legno? No, troppo puzzolente. Ebbene, su di lui era adagiato uno degli aggressori. Il ragazzo cercò di rimuoverlo, per qualche ragione, ma il dolore che lo colse fu abbastanza lancinante da fagli perdere ogni fantasia da crocerossina. Se ne stette lì, perciò; immobile, dolorante, in bocca un sapore di cenere e sangue, la gola riarsa come il deserto, le gambe insensibili, e quest'ultima era una nota positiva. Morire di sete era ben più terribile, si disse, ma forse una punizione adeguata... o magari sarebbe passato qualche animale selvatico...
Passò il tempo, non seppe dire quanto. I fumi delle macerie rendevano il semplice respirare un'impresa, e la mente di Daisuke perse lucidità più di una volta. Sentiva lo stomaco ululare, la gola guaire... ma non gli importava.
Poi, al tramonto, sentì smuovere il cadavere. Finalmente un lupo, pensò dapprima, ma la creatura che gli si parò davanti era la bestiolina più strana che avesse mai visto. Era chiara, di un giallo paglierino, con un muso a punta e due orecchie enormi. Una volpe, tipo. Il suo primissimo istinto fu quello di mangiarla, ma poi una voce lo riportò al mondo degli uomini.
"Hai trovato qualcosa?" disse un uomo, e gli occhi incrostati di Daisuke incontrarono per la prima volta la silhouette mastodontica di Aoji Tendo. La sua barba era enorme, una cascata nera che inabissava le labbra e solleticava la cintola. Quando fecero le presentazioni, più tardi, e Daisuke poté osservarlo meglio, non riuscì a capacitarsi di come una persona potesse preoccuparsi così poco del proprio aspetto. Aoji puzzava, e tanto, aveva un accento terrificante e pareva aver rubato i vestiti ad uno sfollato... ma non era uno shinobi; questo, un vigliacco come Daisuke, poté notarlo immediatamente.
Gli diedero da bere, perché quando gli domandarono il nome non aveva facoltà di parola, e promisero di aiutarlo a patto che dicesse loro cos'era successo. Si, Aoji non era solo, quel giorno, ma ci arriveremo tra un attimo. Gli chiesero il nome, appunto, e fu lì, per la prima volta, che al vigliacco Daisuke venne in mente di sparire davvero dalla circolazione. Stavolta, però, sarebbe stato in maniera indolore, senza troppo disturbo... insomma, un modo efficiente di eclissarsi. Pensò perciò ad uno pseudonimo mentre beveva dalla borraccia lurida del suo salvatore, pensò alla sua vigliaccheria, all'essere un disertore, al fumo e alla cenere sulle macerie... e compose il nome più ridicolo della storia.
Hai 灰, Cenere. Nan 難, Disastrato. Rispose che il suo nome era Hai Nan, e si pentì immediatamente di averlo detto; nessuno poteva credere ad un nome del genere... tranne evidentemente Aoji Tendo e i suoi "collaboratori". Presero il nome per buono, così come la storia che era stato preso in custodia per aver sottratto, affamato, dei ryo ad un ninja di Konoha, senza sapere realmente a chi rubava. Li ringraziò per il loro aiuto, e raccontò loro dell'incendio. A sera fatta lo aiutarono a camminare, caricandolo poi su uno dei loro carri. La notte scese rapida e gelida, e nonostante le ustioni il ragazzo riuscì ad allungare la mano verso uno dei teli che coprivano la merce. Era scuro, pesante, e intriso di un odore che avrebbe condizionato la sua vita di lì in avanti. Lo tirò fin sopra la testa, e chiuse gli occhi, respirando tabacco.
Così moriva Daisuke Homura, e dalle ceneri nasceva Hai Nan. Inizialmente uguali, i due iniziarono ben presto a prendere strade diverse. Del primo si persero le tracce, una spunta sulla lista degli shinobi dispersi in missione. Qualcuno l'avrebbe pianto, forse, o forse no.
Il secondo si svegliò tre giorni più tardi, in una brandina che lo stava lentamente storpiando. Il tessuto era cedevole, e la schiena doleva più delle croste. Tentò di chiedere aiuto, ma la voce che uscì era quella di un gallo rauco. Finalmente, dopo un'ora, si fece viva la presenza inodore di una vecchietta. Portava delle bende fresche, dell'acqua, e per poco non ci rimase secca quando vide il braccio mummificato di Nan teso verso di lei. Il giovane era ancora in condizioni pietose; a malapena in grado di muoversi, troppo debole per gridare di dolore quando lo faceva. Era peggiorato, senza dubbio, e il pensiero di star sul serio per morire gli attraversò la testa come un vecchio compagno.
Eppure ora non voleva andarsene; sapeva esserci ancora dello spazio per lui, in quel mondo in cui era nessuno, e l'odore che aveva permeato i suoi sogni febbrili non lo abbandonava. Era pungente, pieno, disgustoso, opprimente, eppure dolce, ricco, corposo, intrigante... non aveva mai sentito nulla del genere in vita sua, e le prime parole che pronunciò, una volta che l'infermiera fosse riuscita ad avvicinarsi, furono di sincera curiosità. Lei scosse il capo, e non disse nulla, per la delusione del ragazzo. Doveva sapere.
Le medicazioni erano fresche, e cambiate abbastanza spesso da non incollarsi alla pelle rosolata, Nan ne fu grato. Si aspettò una visita dal suo gargantuesco salvatore, ma non avvenne, e la vecchia non rispose nemmeno a questa domanda. Perché ce l'avesse con lui, il ragazzo non ne aveva idea. Non poteva che aspettare, lì immobile, il susseguirsi dei giorni. Faceva caldo, anche dal punto di vista di un ustionato, e il tempo impietoso non variò di una virgola per tutta la convalescenza. La vecchietta rimase sua unica compagna, anche lei invariata, fatta di coccio su ingranaggi di legno. L'afa non pareva scalfirla; la pelle scura, grinzosa e anticata dal sole doveva essere concia come quella della branda.
A quindici giorni dal suo risveglio poté alzarsi. Si svegliò a notte fonda, della vecchia nessuna traccia, e la mummia prese il via. Le gambe avevano perso tono e voglia di muoversi, il cervello era abituato al decubito, e quindi dovette subito sostenersi alla parete per non cadere. Per la prima volta, da quando era lì, diede una buona occhiata ai dintorni: una casupola, delle scope, delle cassette vuote con un marchio inciso a fuoco... uno sgabuzzino? Non importava più; il fuggitivo era già alla porta. La aprì, e il vento gliela ridiede in faccia.
Erano nella zona degli altopiani, poté dirlo quasi subito. Si massaggiò il naso mentre osservava la luna illuminare il rosso nascosto delle mese... nessuno in vista, in lontananza, e tutto taceva. Il vento della steppa tornò alla carica, benvenuto. Era ancora nel Paese della Terra, ma lontano da Iwa, almeno in metrica... ed era un bene. Attorno a lui altre cinque costruzioni, una molto particolare, quasi interamente in vetro.
Lento, prendendo confidenza, si avvicinò alla serra. Dei lumi bianchi pendevano sopra una serie di foglie larghissime, le più larghe che avesse mai visto, e verdi quanto il verde può essere. Riflettevano la luce, rigogliose, e Nan volle entrare per seguire il suo naso. Nulla; con sommo disappunto si accorse che le foglie non emanavano alcun odore. Perse ben presto interesse, e nel voltarsi nuovamente verso l'uscita incontrò una barriera inaspettata. Vacillò, e lo sguardo disegnò la figura di un uomo stagliarsi tra lui e la porta. L'avevano beccato; era uno dei dipendenti di Aoji, avrebbe poi scoperto, e non pareva fidarsi molto del nuovo arrivato. Nan non poteva biasimarlo, ma nemmeno lo ringraziò. Il suo nome era Shinji, non disse il cognome, e fu la prima persona a rispondere alle sue domande. Nel bene e nel male.
Scoprì così che la vecchietta era muta, che le foglie verdi erano di tabacco, che il tabacco era una foglia rinomata nel Paese della Terra, originaria del lontano ovest, e in rapida diffusione anche nel continente ninja. Aoji Tendo gestiva un traffico piuttosto importante, e in aumento; per questa ragione di rado passava da quelle parti. Il tabacco veniva essiccato in uno stabilimento più a valle, aggiunse, dove i venti venivano a stringersi, correndo veloci e rubando l'acqua alle foglie... il calore faceva il resto. Ed ecco che, di fronte all'estatico ustionato, Shinji tirava fuori il prodotto finale, il santo graal dei viziosi, una barretta cilindrica, stretta, dall'aspetto poco appetibile. Un sigaro.
L'odore che Hai Nan aveva sentito settantadue ore prima, e che solo ora andava perdendo, tornò a lui come un vento primaverile. Quando poi l'uomo si ficcò in bocca l'oggetto e lo accese, il fumo che ne scaturì moltiplicò il tono per centinaia di volte. Nan disfece il resto delle bende che gli coprivano il volto, incurante di eventuali croste superstiti, e a naso libero assaporò i vapori lacrimogeni senza preoccuparsi di essere discreto. Nemmeno il vento dell'altopiano poteva fugare quella coltre bianca, densa. Per Nan, in quel momento, il destino bussava alla porta. Il fumo correva dentro e fuori di lui, incendiandolo, e per la prima volta fu contento di aver inventato il suo stupido nome. Persino quando Shinji gli soffiò un'intera tirata in faccia il ragazzo non vacillò; rise, si asciugò le lacrime, e pensò che una notte come quella non sarebbe tornata.
Strappò a Shinji un patto: avrebbe lavorato per lui, se gli fosse stato permesso di fumare uno di quei cosi al mese. Così fu, e con un gesto inaspettatamente rapido sottrasse l'anticipo al suo principale, ficcandoselo in bocca e tirando come fosse una cannuccia. La vampata gli invase ogni millimetro del corpo, ricoprendo il palato di un gusto amaro e dolce; i polmoni eruttarono nuvole, e Shinji rise abbastanza forte da svegliare il resto degli operai. Di lì a poco, nessuno si ricordò più di Hai Nan. Era uno spavaldo fumatore; IL Fumatore: Kitsuen Nan.
Così, di villaggio in villaggio, di città in città, di Paese in Paese, Kitsuen Nan seguì Shinji il Convincente nella sua opera di piazzamento. Per i primi tempi si trattò di stare a guardare, di caricare carri e muli, di appendere le foglie agli essiccatoi, di lavare via gli scarti, di smottare e seminare. Lavori ingrati, ma che rendevano il gusto dello stipendio ancora più dolce. Gli capitò di rincontrare Aoji Tendo un altro paio di volte, per i primi sei sigari di lavoro, ma principalmente quando si trattava di discutere compensi. Shinji era bravo in quello che faceva, e il capo lo ricompensava bene, cosa che si rifletteva sul loro stile di vita. Nan iniziò ben presto a guadagnare più di un sigaro al mese, a vestire capi singolari e a contrattare come il suo principale. A tre anni dal patto, aveva smesso di scaricare casse, a cinque si occupava dei conti, a dieci era il vice di Shinji il Convincente, a quindici aveva una sua spedizione, ed era diventato convincente anche lui. Terra, Vento, Fuoco, Neve, Erba, Ferro, Acqua, Cascata, Fulmine, nessun Paese era scevro di amanti del tabacco; gli affari andavano a gonfie vele, e vendettero persino a degli agenti dell'Abukara. Poco importava chi fosse il cliente; il marchio di Aoji Tendo non era diventato il primo, il monopolista, tirandosi indietro. Ben presto il denaro non bastò più; Nan si permise vizi che non avrebbe mai pensato di poter prendere. La compagnia femminile non gli dispiaceva, né il cibo più esotico, né il gioco d'azzardo o l'alcol. Aoji arrivò a regalargli il suo tantō personale, una lama singolare in grado di fare da tagliasigari, e che tale nome conservò.
Furono anni febbrili, di viaggio costante, di soldi da spendere, di conoscenza infinita. Le gambe di Nan coprirono l'intero continente ninja, ed oltre. Il nord non era più quello segnato dalla cartina, per lui; sapeva che c'erano dei villaggi tribali oltre la Terra, e una grande nazione, quasi incenerita dall'attività vulcanica, oltre il Fulmine. A sud si spinse dove ogni uomo può spingersi: il grande crepaccio che separa il deserto del Vento da quello sconosciuto. Nella grande isola ad est incontrò commercianti venuti da lontano, vestiti in maniera ridicola e dagli occhi dipinti. Ad ovest poté osservare il Paese del Cielo levitare in aria da solo, e le montagne piegarsi al suo gioco gravitazionale come giocattoli. La nuova vita che aveva scelto gli scorreva nelle vene impetuosa, scevra di quel senso di immobilità che aveva caratterizzato la gioventù. Il ricordo dell'incendio, dieci anni prima, e dell'esistenza grama di Daisuke Homura erano remoti, davvero appartenuti a qualcun altro. Hai Nan aveva tutto da perdere, ormai, e ben presto ci andò vicino.
Era una sera fresca d'autunno quando piombarono sulla loro carovana. Il commercio ricco attira banditi, si sa, e in genere la scorta che Nan pagava per i suoi messi era nutrita più che abbastanza da scoraggiare i malintenzionati. Quella volta, però, non fu sufficiente.
Stavano per accamparsi al confine tra il Paese delle Terme e quello del Fuoco, di ritorno allo stabilimento centrale, e sembrava una notte come tante. Nan scese dal carro a stirarsi le gambe, quindi fece due passi nella bassa boscaglia vicina per svuotare la vescica. Si accese un sigaro, appoggiò la schiena ad un tronco d'albero, e dopo una decina di minuti riprese la via del ritorno. Tornato, non trovò altro che sangue e corpi.
La visione lo sconvolse, lasciandolo impietrito. Non aveva sentito nulla; né urla, né chiasso, né il nitrire dei cavalli, anche loro massacrati. I sigari non erano stati toccati, né il denaro, né le foglie, avrebbe notato dardeggiando trai carri. Ciò che infine attirò il suo sguardo terrorizzato fu il riflesso lucente di un coltello; volteggiava sinuoso, calmo, per poi ricadere sul palmo di un uomo ammantato dall'ombra degli alberi. Nan non lo guardò davvero, non riuscì a distinguere, o comunque poi a ricordare i dettagli dell'assassino, ma il volteggiare del pugnale gli rimase impresso. Era la calma nella tempesta, scandiva i battiti del suo cuore.
Il tempo delle domande scadde prima di cominciare. L'uomo vide il rosso tenue emanato dal suo sigaro, ed avanzò qualche passo fuori dalle fronde. Nan seppe di non poter rimanere immobile, e il cervello contò gli attimi che lo separavano dall'incontrare la lama dell'aguzzino. Non fu il mercante, tuttavia, a spostarsi, ma lo shinobi morto da una decade. Daisuke vide il carnefice scattare, e d'istinto fece appello ad energie dimenticate, proiettandole in bocca per un jutsu di fuoco. Non fece in tempo a comporre i sigilli, però, e a ricevere il chakra fu il solo fumo. Quando lasciò la bocca dell'uomo, la cortina incontrò l'assalitore, accecandolo.
Realizzato l'insperabile, Kitsuen batté i tacchi dimenticando Shinji il Convincente, Aoji Tendo, la ricchezza, il futuro, il passato. Ciò che lo guidò fuori da quel boschetto, e a nord, fino al Paese del Gelo, fu la mera volontà di non morire. Era rinato come mercante, ma fu il ninja a salvargli la vita.
Il freddo non gli era mai stato amico, ma in quei giorni rivelò a Nan un volto che non avrebbe mai pensato di poter vedere. Il vento gli seccò la pelle, i piedi tra l'erba gelata divennero insensibili, le orecchie potevano essere già cadute, per quanto ne sapeva... e questo solo per i primi tempi. La seconda notte l'uomo pensò di essere spacciato; non era riuscito a trovare un riparo decente, e la poca legna era finita. Il fuoco morì attorno alle due di notte, lasciandolo preda di un freddo letale. Il sonno non lo favorì, e rimase sveglio mentre il gelo penetrava nelle ossa e spezzava il respiro. Era solo, ormai incapace anche di tremare, nella mente il ricordo del sangue e dei corpi, di come aveva abbandonato i cadaveri dei suoi colleghi a quel macellaio... forse era solo giusto che morisse... non era stato il fuoco a prenderlo; ci avrebbe pensato il gelo. Davanti agli occhi la distesa sterminata, il ghiaccio lucente alla luna... lo sguardo perse il fuoco; i dettagli lentamente si smussarono, si sciolsero, finché non vide solo punti luminosi. Poi l'oscurità lo raggiunse.
Quando si svegliò, solo per un istante, pensò di stare ancora guardando le mese gelate. Quel che gli apparve davanti era luminoso, cristallino, armonioso, perfetto e distante. Ma non era ghiaccio, ed il suo tocco era caldo come il sole primaverile. Il nome non era importante; per Nan era semplicemente l'ennesima entità venuta a prolungare la sua misera esistenza. Non meritava di essere vivo, questo il suo pensiero immediato; la sua fortuna nel salvare la pelle, nell'essere salvato, stava diventando terribile da sopportare. A lui era stato dato il privilegio di lasciarsi morire per ben due volte, mentre a milioni veniva strappata la vita senza appello... i suoi compagni compresi.
Si fece forza, portando su la schiena fino ad incontrare lo schienale del letto. Il focolare poco distante aveva un tocco incandescente sulla sua pelle intirizzita, e le ossa erano ibernate... si sentiva debole, eppure la mente rimaneva lucida. Un'altra giusta punizione.
Le mani della ragazza lo sfiorarono attraverso il lenzuolo, fermando la lenta ascesa. Doveva riposare, disse, ma Nan già lo sapeva. Incrociò il suo sguardo cercando di farle intendere le sue intenzioni, ma trovò il vuoto. Era cieca, due gemme senza luce. Di nuovo il fato lo torturava, facendolo sentire indegno. Se ancora aveva un briciolo d'onore, quello era il momento di mostrarlo.
Si sarebbe alzato, avrebbe camminato fuori dalla stanzetta e sarebbe morto nel gelo... anziché farsi salvare da chi era evidentemente in condizioni più disperate delle sue. Il cuore era fermo sull'obiettivo, desideroso di una redenzione muta ed insignificante, e le membra pronte a seguirlo. Scostò con un colpo le mani della ragazza, impetuoso, e si alzò per barcollare verso la porta. L'irruenza avrebbe prevalso stavolta, e la cautela di una mente vigliacca non sarebbe stata in grado di salvarlo. Spalancò la via all'inverno.
Il vento lo colpì come un pugno in viso, smorzando la fiamma nel camino e la voce della giovane. Come quindici anni prima, la paura lo afferrò prima che potesse muoversi... ma stavolta Nan se ne svincolò. Il gelo gli venne incontro come un vecchio amico, fermando sul nascere delle lacrime patetiche... ed avanzò nella neve. Passo dopo passo sentì le forze abbandonarlo, e la sensibilità sparire dalle piante nude dei piedi. Ai suoi occhi una distesa bianca infinita, unita all'orizzonte ad un cielo identico... si, era tempo di lasciare anche la sua seconda vita.
Lei lo inseguì come poté, ma la determinazione dell'uomo gli permise di mettere distanza tra loro... era sordo alla sua voce. Dopo diversi minuti cadde tra la neve, incapace di riprendere l'equilibrio, di trovare un'andata e un ritorno.
Di nuovo la vita gli giocava un tiro tremendo... l'avrebbe lasciata lì? Avrebbe ucciso, per uccidersi? Rimase fermo, sentendola arrancare alle sue spalle. Fino a che punto era meschino?
Si voltò, e con un gesto fermo la aiutò a rialzarsi. Poi, scusandosi, la riaccompagnò a casa. Non gli era rimasto altro, si disse, maledicendo la sua stupidità ed immaturità.
Rimasero a lungo seduti, in silenzio, forse aspettando che il té si intiepidisse. Nan era incapace di sedersi o alzarsi, e non spiegò il perché del suo gesto. Dopo un tempo infinito ebbe la forza di chiedere cosa ne fosse stato dei suoi sigari, e lei gli passò la sua scatola... ma sarebbero passati alcuni giorni prima che riuscisse a fumare. Tsume, si chiamava; Nan non domandò di più. Non l'aveva trovato da sola, disse, ma da sola viveva, immersa nel gelo dell'inverno in arrivo. La casupola era rotondeggiante, costruita in pietra porosa e spessa, in grado di isolare perfettamente dall'esterno.
Col tempo l'uomo iniziò a ripagare l'aiuto datogli, svolgendo delle commissioni che a Tsume richiedevano tempo e fatica. Più volte andò e tornò dal villaggio di Harinoke, dove aveva iniziato ad abitare, e riuscì a costruire una piccola serra in vetro nel cortile. Il denaro non gli mancava, anche se spenderlo era una pena. Ogni ryo, ogni bene comprato gli ricordava la vita da mercante, che già sembrava tanto lontana. I vizi, la boria, la mondanità... tutto appariva spoglio, triste, ora. Col passare dei mesi si liberò di tutto ciò che lo disgustava, che lo aveva reso avido e meschino. Gli abiti che portava sparirono per primi, i gioielli per secondi, ma Tagliasigari finì riposta in una cassapanca... era stato un dono, un ricordo di giorni futili e felici, e tale sarebbe rimasto.
Iniziò ad aprirsi con la sua salvatrice, raccontandole del suo passato e da dove venissero le sue finanze. Non menzionò la sua prima vita, naturalmente, ma riuscì ugualmente a sorprenderla con le sue doti di botanico. Ben presto poté coltivare patate, rape, cavoli e persino del riso, oltre naturalmente alle foglie di tabacco. La gente iniziò a venire da lontano per comprare prodotti tanto inusuali, ma gli affari avevano perso il loro fascino. Ora era semplicemente un modo per tenersi occupati, per sperare che la vita passasse senza notarlo.
Tra lui e Tsume iniziò ad esservi affetto, certo, e fu difficile per Nan avvicinarsi a lei. Non amava il fumo, e questo era già un problema; per ben due mesi riuscì a tenere il Fumatore lontano dal suo vizio salvifico, prima che ricominciasse di nascosto. Ma, in realtà, l'avversione per i sigari era il meno. Riflettendo, Nan si disse che non era tempo per piantare radici; sentiva, nel profondo del cuore, che il suo passato sarebbe tornato ancora per tormentarlo. Aoji Tendo non era uomo da perdonare chi abbandonava un carico prezioso, e certamente era venuto a sapere della sua scomparsa.
Per questa ragione decise di insegnare a Tsume i rudimenti del taijutsu. Le disse che una ragazza sola, così come un ricco mercante, doveva sapersi difendere, e che la mancanza della vista non era un problema. Lui stesso apprese come muoversi al buio, bendato, ponendo attenzione ad ogni movimento proprio ed altrui. In meno di due anni lei gli tenne testa, tanto che Nan dovette iniziare a combattere ad occhi aperti. Insieme affrontarono cinque inverni, cinque "Brevi estati" del Gelo, cinque anni di bufere e tranquillità... e per Nan arrivò il giorno in cui si sentì finalmente realizzato; quello era il suo posto, dopo tanto girovagare. A quarant'anni rinasceva ancora, come fruttivendolo, amico, e amante. Benché Tsume fosse molto più giovane di lui, infatti, la ragazza gli era vicina come nessuno mai era stato. Per quanto avesse cercato di negare il sentimento che andava crescendo, l'amore lo colse comunque al momento giusto. Era felice, felice del suo lavoro, del freddo, delle giornate invariate e monotone, delle lunghe passeggiate assieme. Sentiva che, un giorno, avrebbe potuto raccontarle tutta la verità su di lui; aveva tutto il tempo, però, poteva rimandare.
Ma la vita trovò la strada attraverso l'inverno e la neve, affrontando la tempesta pur di trovarlo... e lo raggiunse in una mattinata come tante, travestita da cliente. Domandò di vedere i prodotti, di fare un giro per la serra, e Nan fu ben contento di accompagnarlo. Parlava in un accento inusuale, per il luogo, ma il Fumatore non ci fece caso; la gente arrivava da lontano ad Harinoke, che fossero clienti o viaggiatori. Tuttavia, passati davanti al tabacco, qualcosa rintoccò nell'animo di Nan. Un suono, regolare e cadenzato, che scandiva i battiti del suo cuore. Si voltò verso il cliente, guardandolo destreggiarsi con una moneta.
Saliva, scendeva. Tin.
Saliva, scendeva. Tin.
Saliva, scendeva. Tin.
Baluginava davanti al suo sguardo, che dardeggiava a quello del cliente quando la moneta arrivava ad altezza d'uomo. Un solo momento, poi, e l'assassino gli fu addosso. Un coltello aveva sostituito la moneta, e il suo lucore era ben conosciuto sia a Nan che a Daisuke. Quando si scontrarono, il venditore tentò di accecare il suo carnefice come aveva fatto cinque anni prima... ma senza successo, stavolta. Le mani lo trovarono anche al buio, e presto non fu più in grado di respirare. La stretta del sicario attorno al collo, la mancanza d'aria, la vista del coltello pronto a farlo cadavere... tutto turbinò, passato e presente, memoria e momento. Poi un grido, ed un colpo.
Tsume era accorsa, ed aveva tentato di colpire l'assassino alle spalle. L'uomo si era girato in tempo, tuttavia, e dopo aver colpito ancora Nan affrontò la ragazza. Stordito, il Fumatore tentò di rialzarsi, ma cadde ancora e ancora, mentre il massacratore dei suoi compagni si apprestava a fare altrettanto con l'unica ragione rimastagli.
Non l'avrebbe permesso... stavolta non poteva, non sarebbe scappato. Il tempo di redimere la propria dignità era arrivato. Le gambe ritrovarono l'equilibrio, le mani il mozzicone ancora acceso, la mente una freddezza alimentata dalle vampate torride della foglia. Esalò una prima nuvola, dimenticando sangue e dolore, ne esalò una seconda, trovando Tagliasigari, una terza, avanzando verso il caos. L'assassino lo vide avanzare lento, e con un colpo di mano gli lanciò un pugnale. In un istante, Nan rilasciò la quarta ed ultima, inondando la serra con una coltre fittissima.
Era cieco, ma ormai vedeva. I suoi passi lo portarono ad un metro dal suo passato, e con un unico affondo lo inchiodò al vetro. Il chakra gli ribollì nelle vene, ma il volto rimase impassibile. Il fuoco bruciò tutto il tabacco conservato nell'impugnatura fino a quel momento, che all'insaputa del Fumatore eruttò attraverso il meccanismo cavo della lama. Il lume negli occhi nemici si spense, e, con lui, morì la speranza di Nan Kitsuen.
Quella notte le raccontò tutto: di Daisuke, di Iwa, della sua meschinità, delle sue menzogne. Come sempre Tsume lo ascoltò in silenzio, tamponando il sangue dei tagli e fasciando le contusioni. Se avesse potuto, l'uomo avrebbe fermato il tempo e l'avanzare del giorno, che arrivò fin troppo presto.
Era un addio, lo capirono entrambi fin da subito. Nan sapeva di essere braccato, da Iwa o da Tendo non faceva differenza, e non poteva permettersi di mettere Tsume in pericolo. Partire insieme non sarebbe stato saggio, non nelle condizioni della ragazza, e se davvero c'era la Roccia dietro l'assassinio nessun luogo era sicuro.
Non rimaneva che salutarsi, un commiato venato dalla speranza del ritorno. Nan vi rifletté attraversando nuovamente le distese gelide, ma più e più volte la ricacciò scettico e dolente. Iwa non avrebbe mai smesso di cacciarlo, né i suoi creditori. Si era trattato di una parentesi, niente più che di un momento di pace.
Eppure lei era viva, stava bene, e col tempo si sarebbe dimenticata di lui. La consapevolezza di aver dato un senso alla propria esistenza trasformò il vento gelido in una brezza accomodante. Passo dopo passo, pur senza una meta, Nan tornò alle propaggini della foresta da cui, cinque anni prima, aveva avuto inizio il suo esilio.
Cosa gli rimaneva? Dove si sarebbe trascinato? Che il passato gli corresse dietro o meno, a questo punto non aveva importanza. Finché era solo non poteva mettere altri in pericolo, e tanto bastava a rendere la minaccia inconsistente. Non c'era desiderio di vendetta, in lui, né la voglia di intraprendere un'impresa che non aveva i fondi o le capacità per portare a termine.
Passò dunque un anno viaggiando di taverna in taverna, di villaggio in villaggio, tentando di scomparire nuovamente. Il nome variava volta a volta, così come l'abbigliamento ed il modo di comportarsi, finché voglia e denaro non arrivarono agli sgoccioli. A questo punto, consapevole che noia e tristezza non si sarebbero mai fatte seminare, l'uomo spese le ultime fortune per pagarsi il viaggio in nave fino alle isole ad est, oltre il Paese dell'Acqua. Non conosceva luogo più lontano da Iwa, né più selvaggio. Così come dieci anni prima, l'arcipelago aveva molti nomi e molte facce diverse. Che fossero abitanti del continente o stranieri venuti da lontano, tuttavia, tutti coloro che arrivavano all'arcipelago avevano tre cose in comune: erano arrivati in nave, avevano denaro da spendere, perdevano i loro trascorsi, buoni o cattivi che fossero.
Nan poteva vantare solo la prima, e per tale ragione si diresse dove sapeva avrebbe potuto ottenere la seconda. La terza, per lui, era ormai una vuota promessa.
Non era insolito per debitori o criminali finire in pasto alla Gilda degli Esploratori, nell'arcipelago. Nan sapeva bene cosa sarebbe successo, una volta che avesse accettato il loro anello. C'erano sempre persone disposte ad investire per il controllo e la mappatura del continente orientale, oltre l'oceano. Che fosse con il binocolo o con la spada, la Gilda si occupava di... assicurare regioni per un prezzo equo. Nan non chiedeva niente di meglio.
Fu così che, appena quarantenne, l'uomo approdò su un luogo fuori da quasi ogni mappa del continente. Parlava appena qualche parola, e benché non ci fosse molto da dire in un territorio quasi completamente selvaggio, comunicare con i locali gli era difficilissimo. Tanto meglio, si disse, se voleva evitare di lasciare un segno del suo passaggio.
Ben presto, in ogni caso, imparò lo stretto necessario a mantenerlo in vita. Di luogo in luogo, dalla giungla alla pianura alla montagna, il lavoro come mercenario lo portò ad annullarsi, a trasformare il passato in un ricordo sfocato, ancora una volta appartenuto ad altri. Tutto era avvenuto in luoghi così lontani, così diversi da quello in cui si trovava, ed il pericolo costante divenne una comoda distrazione. Fumare, nascondersi, tendere agguati, uccidere, rimanere feriti, guadagnare, fumare, e partire di nuovo, questa divenne la routine per quasi una decade. Non era un lavoro onorevole, dato che la Gilda si occupava di esplorazione quanto un macellaio coltiva piante, ma Nan non era più lo shinobi, il mercante o il bottegaio; ora usava il denaro solo per lo stretto necessario, per i sigari, e mai per appagare il vizio o la rassegnazione che, come una compagna non frequentata per tanti anni, era tornata a trovarlo.
Non cercò mai l'avanzamento nei ranghi dell'organizzazione, né il legame con i mercenari che, volta a volta, lo affiancavano in ciascuna operazione. Eppure, lentamente, così come era stato un tempo infinito prima, l'uomo iniziò a dimenticare il proprio passato. Non l'avrebbero mai trovato, nonostante sapessero fosse vivo. Chi poteva desiderarlo morto per tanti anni? Non aveva lasciato nulla dietro di sé.
E il nulla, come in un circolo vizioso, lo attendeva all'inizio del percorso.
La Gilda spedì lui e altri quarantanove uomini nel folto della giungla, a stanare una delle tante tribù che, da partner commerciali, erano divenute ostacolo. Nonostante gli appostamenti e le trappole, dei selvaggi c'era appena l'ombra. Si rivelavano per poi svanire dopo brevi inseguimenti, accelerando la loro marcia del cuore del verde ed instillando un senso di frustrazione e fretta che Nan aveva imparato a temere. Non si nascondevano per colpirli, non era la solita strategia... ma ai mercenari non importò granché: i selvaggi sapevano di non poter competere con loro, né in termini di rifornimenti, né in termini di capacità o equipaggiamento.
Così proseguirono con gli ordini, trovandosi infine in un'ampia radura. La luce del tramonto si infrangeva sulle fronde in alto, cadendo qua e là in frammenti sanguigni sul pianoro erboso, finché, dopo alcuni metri, non riusciva ad illuminare appieno. Gli alberi si interrompevano infatti bruscamente, senza alcun accenno di sradicamento, ad una distanza fissa dalla struttura più singolare che gli uomini avessero mai visto. Una rovina, un tempio, forse, ma dall'aspetto e dimensioni impensabili. Le tribù non costruivano in pietra, questo era certo, né possedevano gli strumenti per creare una radura artificiale di quella dimensione e precisione.
I loro sforzi erano stati finalmente premiati, fu il primo pensiero di tutti, ma all'intenzione di addentrarvisi tutti si dissero contrari: era fin troppo facile finire in una trappola, o comunque rischiare di trovarsi circondati dai selvaggi, una volta entrati. Meglio informare la Gilda.
Non ebbero il tempo di organizzarsi, tuttavia. Alle loro spalle si levò un grido, poi un altro, finché l'intera cinta arborea non risuonò del canto di guerra tribale che avevano cercato per così tanto tempo. Una salva di frecce li raggiunse dal folto, non inattesa, atterrando a pochi passi dal gruppo in ritirata verso il centro. Il tiro costante li costrinse ben presto a cercare rifugio nell'edificio, abbandonando chi era stato ucciso o ferito da non poter camminare.
Sigillata la grande porta di pietra, furono al buio. Le loro voci risuonavano allarmate per le pareti mute della costruzione, finché un lucore chiaro non li richiamò al silenzio. Dapprima flebile, la luce crebbe in un chiaro verde acqua, cristallino, non piegato dalle vibrazioni di alcuna fiamma alle spalle della gemma. Pur senza chiasso, il terrore di aver risvegliato qualcosa indusse molti a cercare di forzare l'ingresso, ora inamovibile.
Nan, dal canto suo, continuò ad osservare il lume in fondo al corridoio senza battere ciglio. La consapevolezza di una morte imminente gli sfiorò la mente, ma era un tocco dolce, quasi desiderato. Era dunque quello il luogo in cui sarebbe finita la sua storia? Senza che stavolta lo volesse, avrebbe finalmente perso la sua partita a dadi col destino? Aveva arrancato abbastanza, si sorprese a pensare... cinquant'anni di fuga e rassegnazione erano abbastanza per chiunque.
Poi le mura iniziarono ad emanare un vapore scuro, tetro, e, prima che la luce svanisse, Nan poté distinguere delle figure farsi largo silenziose trai blocchi in pietra. Uomini, demoni, spettri... non faceva differenza. Seguì il buio, e la follia del massacro.
Attorno a lui sentiva le urla dei suoi compagni, e le loro preghiere, ma gli occhi privi di guida ora non cercavano altro che l'unica luce rimasta in vista... un rossore, a pochi centimetri dal viso, familiare e pulsante al ritmo del suo respiro. Quando vennero per lui, le loro dita affilate come coltelli, il Fumatore vide il rosso farsi scuro, viola, ed una voce parlare al suo pensiero. Un Dio del Tutto, del Destino, del Tempo, del Caso, tredici doni per tredici uomini, ed un mondo Nuovo... un mondo che Nan non avrebbe mai visto.
La pelle si aprì al loro passaggio; la carne come aria, le ossa come cenere, il sangue come fumo... non sentì dolore. E poi, d'improvviso, una scintilla.
Le fiamme lambirono il suo corpo in un abbraccio purificatore, cancellando il contatto con gli artigli e trasformando l'ombra in luce. La struttura collassò attorno a lui, ma l'uomo non sentì mai la pietra colpirlo. La sua coscienza si andava volatilizzando; una cortina di fumo preda del vento.
Riaprì gli occhi in un mondo adatto a lui. I tronchi avvizzivano nella stretta dell'incendio, le foglie volavano sopra di lui come lucciole danzanti, ed un silenzio perfetto non si metteva tra lui e la sua agonia. Come gli alberi affondavano nel fiume, bruciando non appena il legno avesse lasciato il pelo dell'acqua, così il suo corpo era fuoco e ghiaccio. Non poté muoversi, trascinato dalla corrente, ma come ventun'anni prima il pulsare della pelle martoriata dal fuoco non aveva bisogno di sollecitazioni.
Un occhio era praticamente cieco, ma l'altro vide ciò che poté senza poter trascinare dietro il cervello. Quell'incendio era opera sua; non sapeva il perché delle fiamme, o del fiume, né si domandò se fosse finalmente giunta la fine. Come poteva essere sopravvissuto? Il fuoco, la pietra e l'acqua, tutte e tre avrebbero potuto ucciderlo, eppure tutte si erano tirate indietro. Desiderò colpire una roccia, rovesciarsi ed annegare, desiderò sparire. Finalmente, definitivamente, serenamente.
Invece perse i sensi, ancora, consumandosi nella propria commiserazione.
Il sogno lo riportò in piedi, spingendolo a camminare lungo il corso d'acqua. Attorno a lui gli alberi ardevano assieme ad immagini delle sue vite passate; Tsume bruciava nel suo letto, un ragazzino dai capelli chiari spariva tra le fiamme di un villaggio, degli uomini erano smembrati da lame incandescenti... e in basso, oltre i tronchi e le gambe, l'acqua era nient'altro che una densa coltre di fumo. Avanzò, non sapendo come, allo stesso tempo conscio di non essere in sé. Lo precedeva una figura ammantata, ma irriconoscibile, e alle spalle il tintinnare ritmico di una moneta scandiva la cadenza dei suoi passi... tin... tin... tin...
L'oscillare dello scafo lo cullò nuovamente al mondo, mummificato in un bozzolo di bende umide. L'odore dell'unguento era nauseante, tanto acre da rendergli quasi impossibile respirare, e Nan si artigliò il volto nel tentativo di aprire una via al naso. Nessuno arrivò a fermarlo, e nonostante i dolori lancinanti buona parte del bendaggio venne via. Solo allora rifletté, solo allora respirò, guardandosi attorno.
Era nella stiva di una nave, nudo, inerme, e vivo. Si forzò a sedere, strappando ciò che rimaneva della pelle lungo la schiena. La memoria degli ultimi eventi accadutigli prima di perdere i sensi era fatta di sogno e riflesso, sempre più sfuggente all'avanzare della lucidità. Così seppe di non star delirando per l'ennesima volta, e realizzò davvero di essere stato salvato. Si, ma da chi? Chi poteva averlo trovato prima della miriade di pesci famelici che popolavano i fiumi della giungla? Poi, così come era stato quasi trent'anni prima, un odore lo raggiunse inalterato da sale e legno. Un aroma corposo, ricco e complesso, che il ragazzino aveva assaporato e l'uomo compreso. Attorno a lui, materializzatesi dal nulla sotto i loro teli di iuta, delle casse di sigari lo salutarono col loro accento inconfondibile. Inutile dire che la visione cancellò buona parte dei dolori e dello sconcerto momentanei, ma allo stesso modo la serie di incredibili coincidenze lo fece tornare al dubbio. Sulle alture di Iwa si stava riprendendo dalle ustioni, e anche lì si era strappato le bende dal viso per prendere un sigaro, lo ricordava bene... poteva davvero essere sveglio?
Oltre ogni buonsenso, la curiosità lo spinse ad alzarsi. Il telo ruvido che lo copriva scivolò via, fugando ogni dubbio circa nudità e gravità delle ustioni, e la variazione di peso, pur minima, fu sufficiente a fargli perdere l'equilibrio. Cadde in avanti, incespicando su un paio di gambe rinsecchite, e fu solo grazie al bisogno che le mani riuscirono a reggersi sul bordo di una cassa. Come un disperato sull'orlo del precipizio, Nan si trasse in alto, fin sopra l'orlo, e gettato un braccio nel mucchio estrasse un pezzo per poi rovinare ai piedi del legno. L'impatto col suolo lo ricacciò per un istante nell'oblio, ma il gusto della vittoria fu troppo forte perché potesse lasciarsi andare. Aprì gli occhi, e il sigaro era lì, tra le sue dita.
Il fuoco doveva averlo fatto impazzire definitivamente, perché i suoi salvatori l'avrebbero senz'altro ributtato a mare se l'avessero beccato a rubare il carico. Ma girata l'etichetta Nan si domandò come ciò non fosse già accaduto.
La lacca rosso scuro era un tocco nuovo, ma il sigillo era rimasto identico a vent'anni prima. Aoji Tendo commerciava e si riforniva anche ai confini del mondo, a quanto pareva, e i suoi uomini raccattavano cadaveri galleggianti alle propaggini di paludi tra le più infestate. Non era certo che la nave appartenesse al mercante, ma la coincidenza era non meno incredibile. Impossibile che lo riconoscessero, non ustionato com'era, e probabilmente erano stati gli abiti della Gilda a garantirgli il recupero. L'anello, nonostante tutto, era ancora al dito.
Schioccò le dita, accendendo una fiammella sulla punta del pollice e convogliando le forze residue in una serie di sbuffi. In breve il sigaro si accese, e l'uomo si permise di riscivolare nell'oblio tra una boccata e l'altra.
Questa volta, al risveglio, non era solo. La memoria si riallacciò al sapore del sigaro, aiutata dal naso, e la consapevolezza di non esser finito definitivamente in pasto ai pesci lo riempì di uno strano senso di sicurezza. Da una parte sapeva di star per essere interrogato, dall'altra era certo che non si sarebbero liberati di lui senza qualche conferma.
Non dovette attendere poi molto; il medico si sincerò delle sue condizioni, quindi andò a chiamare il capitano. Un uomo dell'est, scuro di pelle e largo di fianchi, con due occhi piccoli schiacciati dalla prominenza di fronte e gote. La prima domanda riguardò il nome, e Nan fu sincero nel dire d'essere Daisuke Homura. Il fuoco aveva reclamato il ragazzino, dopotutto, ed era più che plausibile che riemergesse dallo stesso elemento. La seconda riguardò la professione, e Nan ammise l'appartenenza alla Gilda, mostrando l'anello ed aggiungendo le circostanze della sua deriva. Alla terza, tuttavia, il capitano rivelò Tagliasigari, e l'interrogato rimase interdetto. Come poteva non essergli venuto in mente prima? Le fiamme gli avevano davvero fritto il cervello...
Alla base del fodero, sotto la coda placcata, il marchio di Tendo non si nascondeva alla vista. In qualsiasi altra situazione l'uomo sarebbe potuto passare come un agente della Gilda bisognoso d'aiuto, ma il destino aveva voluto che finisse nelle mani delle uniche persone in grado di scambiarlo per un ladro ed assassino... o peggio, di riconoscerlo per chi era davvero.
Pur prona al delirio per via delle ustioni, la mente di Nan iniziò a lavorare come non aveva fatto per mesi, e come faceva solo quando la sua identità correva il serio pericolo di saltare per aria. La possibilità che dei mercanti orientali conoscessero un venditore del continente creduto morto da quasi vent'anni era ridicolmente bassa persino per la sua sfortuna, ma erano soprattutto le ustioni a favorirlo in quella situazione. Anche avesse voluto farsi riconoscere, la pelle era talmente butterata da non consentirgli alcun raffronto, e presto il fumatore rimase a corto di opzioni.
Di fronte al suo silenzio, il capitano comandò di confinarlo in sentina fino al primo porto utile per il suo riconoscimento da parte della Gilda. Quale che fosse l'origine della lama, e le colpe del nuovo arrivato, riportare l'anello e il suo possessore agli Esploratori significava una discreta somma in premio, discreta abbastanza da giustificare salvataggio ed attracco.
Tuttavia non gli sarebbe stato riservato un posto in prima classe, e di certo avrebbero fatto presente i loro sospetti una volta giunti a terra. Ma per il tempo che gli ci volle ad abbandonare Nan all'umidità nauseante dello scafo, questi aveva già altri piani; per sé e per Tagliasigari.
Fecero porto attorno al suo cinquantesimo compleanno.
Non che l'uomo ne avesse idea; il viaggio era stato nient'altro che buio ed umidità, unico spiraglio la botola che l'equipaggio apriva per passargli il vitto.
Quando l'imbarcazione toccò terra, tuttavia, fu una benedizione. Nan sapeva che il momento della verità si faceva vicino, e che le sue forze erano ridotte all'osso, ma l'attesa lo aveva logorato più di qualsiasi altra cosa. Persino più del mal di mare, o del sonno febbricitante.
Sentì le voci farsi più concitate, e le casse venir spostate, prima che qualcuno finalmente si degnasse di trascinarlo fuori. Nell'emergere sul ponte, l'impatto con la temperatura ebbe la stessa forza dell'immagine: deserto, nient'altro che deserto. La luce era ovunque, rimbalzando impazzita tra le onde per schiaffeggiarlo ripetutamente: dovette serrare le palpebre, in testa mille possibilità circa il luogo in cui si trovava.
Una volta a terra lo bendarono, impedendogli definitivamente di orientarsi, e coperta la schiena con un panno umido lo trascinarono per diversi minuti nella sabbia rovente. Attraverso lo schermo di un paio di sandali di pessima fattura, Nan sentì i piedi diventare insensibili ben prima di giungere a destinazione... di nuovo al chiuso.
Sentì una porta in legno aprirsi e chiudersi alle sue spalle, ma il caldo non aveva subito alcun colpo. Lo costrinsero in ginocchio, e lì li udì confabulare per diverso tempo. Tutto attorno era un viavai di merce, persone e monete, i suoni in arrivo da punti indistinti di quello che doveva essere un complesso piuttosto grande.
Poi, dal nulla di quel caos, il pianto di un bambino. Era vicino, sempre più vicino, ed assieme a lui il suono di decine e decine di persone disorientate, spaventate, trascinate; voci dissonanti rispetto a quelle udite fino ad un momento prima: schiavi. Stretti tra i legacci delle corde, i pugni dell'uomo serrarono in un moto di frustrazione... e non per via dell'ingiustizia. La tratta di esseri umani non aveva nulla di nuovo per lui; viaggiando ne era stato testimone, a volte persino favoreggiatore. Nulla di personale, anzi... ma era lavoro.
Ora non c'era nessun compenso in attesa, nessun momento di pace da godersi a consegna ultimata. La presenza di quei penitenti accanto ai suoi carcerieri rischiava di mettergli un freno al momento opportuno, e l'uomo sapeva di non potersi permettere sconti.
Le trattative presero il via in maniera brusca e concitata. Ormai Nan sapeva di essere diventato merce di scambio, ma la cosa non lo impensierì più di quanto non avesse fatto la prospettiva di finire in mano alla Gilda. Nemmeno quando sentì il suo prezzo abbassarsi, e il capitano forzarlo in piedi per elogiare le sue qualità di rematore ben oltre qualsiasi orizzonte di verità. Le mani dell'omaccione gli afferrarono il volto, le braccia, le gambe, e infine premettero sulle spalle perché tornasse in ginocchio. Cieco, Nan sentì l'elsa della propria lama sfiorarlo mentre cadeva, e raggiunto il suolo il tintinnare dell'acciaio lo chiamò come la campana col fedele. Pregò perché il capitano avesse fatto il suo dovere di marinaio, assicurando l'elsa al fodero tramite la corda agganciata al codolo... quindi, senza emettere un suono, la azzannò.
Il chakra di fuoco corse fino agli scarti nell'elsa, incendiandoli e sparando una coltre di fumo dalla punta di Tagliasigari. Il capitano si fece indietro, la propulsione del meccanismo spinse la lama fuori dal fodero, ma la corda resistette, ancora e ancora, finché, al momento perfetto, non si spezzò.
La forza liberatasi fece saltare Tagliasigari fuori, assieme ad una velocissima coltre di fumo, forzando Nan nuovamente su due piedi ed aprendo la pancia del capitano dal fianco sinistro allo sterno. Il sangue schizzò ovunque, e appena il tempo di sentire le urla che la risposta dei suni uomini gli fu addosso. Quando varcarono il confine della caligine, armi in mano, Nan li avvertì sulla sua pelle; quando si mossero per attaccarlo, accecati dal fumo, per il fumatore la vista era tersa... e colpì, ancora e ancora, abbattendo fantasmi con una lama invisibile, in mente la danza bendata che aveva ballato con Tsume un tempo infinito prima, in un'altra vita.
Alla fine non rimase che la sensazione del vapore tutto attorno, nel filo della lama, nei corpi dei morti. Le urla di schiavi e schiavisti erano ovattate, di mera cornice, ma Nan sentiva ancora su di sé la necessità di fuggire. Da cosa, per cosa, rimanevano da definire.
Emerse, attorno a il caos di uno scontro che lui stesso aveva iniziato. Molti di coloro che erano giunti lì per essere venduti avevano seguito il suo esempio, decidendo di giocarsi quello che non avevano da perdere prendendo le armi contro gli schiavisti.
Lasciò cadere in terra la lama, stringendola tra le ginocchia e recidendo più velocemente possibile i legacci che ancora gli serravano i polsi. Una volta libero l'impulso di darsela a gambe fu più forte di qualsiasi altro; recuperò il fodero di Tagliasigari ed una borraccia dal corpo del capitano, quindi afferrò un mantello e corse fuori appena in tempo per vedere lo stabilimento andare in fiamme. La foga dello scontro si era estesa anche al porto, ma qui, nonostante il loro numero, gli schiavi iniziarono ben presto a fuggire di fronte alle armi dei mercanti. Lungi dal voler giocare il ruolo del salvatore che non era, Nan seguì il loro esempio.
Aveva vagato la tundra di Shimo, si era addentrato nelle più fitte giungle orientali, aveva passato settimane all'umido di una stiva... nulla di paragonabile a quel supplizio. Vagò per quattro giorni, ma all'uomo parvero mesi, e furono sufficienti a portarlo ad un passo dalla morte; non una desiderabile. Disidratato, confuso, affamato, vide svanire una ad una le figure disperate che erano scappate assieme a lui. Inizialmente uniti nella speranza di trovare riparo, presto il gruppo di schiavi scemò completamente.
Al sorgere del terzo giorno, ormai incapace di formulare pensiero compiuto, Nan continuò a marciare tra le sabbie roventi completamente solo. Le labbra non avevano più sensibilità, e così le piante dei piedi, ma le viscere bruciavano come se stesse scivolando lungo un palo di legno. Tale era il deperimento fisico che questa volta, forse la prima in tutta la sua vita, l'uomo non ebbe la capacità di contemplare la prospettiva di una dipartita. Se fosse morto, l'avrebbe fatto al pari di un animale... e Nan non avrebbe avuto da ridire, fosse solo arrivato presto il momento.
Ma non arrivò, non prima che gli occhi del vagabondo si posassero su ciò che ogni assetato brama. Allucinazione, dono del paradiso, scherzo del destino, non importò; Nan vide delle palme, dell'erba, ed un pozzo accanto ad uno specchio d'acqua brillante come oro. Si trascinò verso quella visione, inciampando sull'insensibilità delle gambe ed abbrancando la sabbia rovente mentre il miraggio non dava segno di voler svanire. Vide delle sagome, ombre nel vibrare del calore, ma non vi diede peso, ed affondando il volto nell'acqua assieme ai cammelli le sentì brulicare alle sue spalle.
Una mano lo afferrò per i capelli, trascinandolo all'aria aperta e parlandogli in una lingua che aveva qualcosa di lontanamente familiare, una che non aveva usato per anni. Ma l'assetato non si disturbò ad indagare: cercata con una mano l'elsa della propria arma, la trascinò assieme all'intero fodero in un fendente goffo e strascicato, ruotando fino ad incrociare l'arancione dei capelli del suo interlocutore. Questi si mosse rapido, spostandolo e forzandolo a brancolare verso tre ragazzini dallo sguardo esterrefatto.
Lanciò un grido delirante, quindi, inciampando, fece per vibrargli un colpo. La mano non tornò mai oltre il limite della spalla, tuttavia, e quando la presa del jonin lo strattonò indietro Nan trovò un pugno ad attenderlo. Buio.
Quando si svegliò lo avevano già rivestito, ripulito e rinchiuso. La prima cosa che vide furono le sbarre, e lo spiraglio dal quale penetrava quanto basta a ferire gli occhi. Un carcere per squilibrati e briganti, avrebbe presto scoperto; le loro grida una canzone senza tema, i loro schiamazzi l'accompagnamento perfetto. Dapprima smarrito, Nan tentò di raccapezzare le ultime memorie prima del collasso: ricordò il dolore lancinante, l'ardere della pelle, quindi, ovunque, la frescura risanante dell'acqua. Poi quelle ombre, e il delirio della paura.
Sospirò, chiudendo gli occhi e passandosi una mano sul viso dopo aver realizzato di non avere più nulla con sé; lo sbalzo di temperatura tra il deserto e la pozza gli aveva provocato il distacco dell'epidermide ustionata, che cadde come fiocchi di neve non appena separò il palmo dalla bocca. Aveva perso Tagliasigari, questa volta probabilmente per sempre, e anche l'anello era sparito.
Non era più nulla, realizzò, ma era vivo. Insicuro su come la cosa lo facesse sentire, l'uomo tentò di recuperare l'equilibrio, trovando gambe molli e stomaco famelico mentre avanzava verso la porta rinforzata. Accanto all'ingresso della cella, notò poi attraverso il buio, gli era stato lasciato un vassoio con una zuppa ormai gelida e del pane azzimo più duro del suolo.
Nemmeno in gioventù aveva mangiato meglio, si disse, trangugiando la razione, abbandonandosi ad un lungo sospiro appena finito. La testa prese a girare, e troppo tardi gli passò per la mente l'eventualità di essere stato drogato. Ma non ce ne sarebbe stata ragione; quando perse i sensi, fu solo per aver mangiato troppo in fretta dopo un lungo digiuno.
I giorni che seguirono l'ennesimo, nauseato risveglio furono di completo isolamento, al punto che Nan iniziò a domandarsi se chi l'avesse catturato non avesse già deciso del suo destino. Tuttavia, lungi dal turbarlo, la compagnia delle sbarre e delle urla lo ricondusse a quel senso di staticità e rassegnazione che il destino gli aveva così bruscamente rubato trent'anni prima.
Aveva da mangiare, da bere, poteva dormire in un luogo sicuro; dopo tutta una vita passata a guardarsi le spalle, a desiderare di svanire, l'uomo aveva finalmente trovato una gabbia in cui passare in tranquillità il tempo che gli rimaneva. Nessun conto rimasto in sospeso, nessun assassino al quale dover sfuggire, nessuna famiglia cui doversi dedicare... di tutte gli epiloghi che avrebbe potuto considerare, quello era allo stesso tempo il più miserabile e dignitoso possibile, e all'uomo andò più che bene.
Ma così com'era stato per ogni altra cosa andatagli bene nei passati trent'anni, la prigionia non era destinata a durare. Anche lì, rinchiuso in una cella nel mezzo di un deserto sconosciuto, il destino lo venne a cercare. E stavolta non si trattò di assassini o spiriti maligni, ma un chiassoso misto di entrambe le cose.
Erano passati tre mesi dal giorno del suo internamento, abbastanza da far alienare chiunque non fosse Nan Kitsuen, che invece era diventato matto in maniera molto più originale: astinenza da fumo. Non poteva avere idea di quanto fosse passato, dall'ultimo sigaro, e presto il problema del tempo divenne secondario. Inizialmente si disse che i sintomi sarebbero passati, che il corpo avrebbe dimenticato... ma più si abituava alle sbarre, più ogni singolo odore finiva per ricondurlo a quel giorno lontanissimo, tra gli altopiani della Terra, quando aveva annusato il tabacco per la prima volta. E ben presto non fu soltanto l'olfatto a tradirlo; nella ripetitività di ogni giorno, la mente finiva col cercare sempre quello che non poteva avere: il cibo non sapeva di nulla, il suolo aveva la stessa ruvidità della foglia secca, l'acqua serviva solo ad assetarlo di nuovo... quando arrivò, il giorno della liberazione giunse dunque nella maniera più scomoda ed ambigua possibile. Né punizione, né premio.
Un rombo nella notte, più lungo e profondo di ogni usuale schiamazzo. Nan, il sonno ormai a fior di pelle, si destò di soprassalto un attimo prima che la serratura della sua cella scattasse all'unisono con ogni altra nella struttura.
Poi, il delirio. Una ad una sentì le celle vicine venir spalancate, e la feccia gettarsi a capofitto per i corridoi; il primo istinto fu quello di nascondersi, rimanere dov'era, anche a costo di consumarsi nel bisogno di tabacco. Aveva guadagnato una sicurezza, tra quelle sbarre, la stessa che un uccello impara una volta ingabbiato... ma, nel sentire le urla delle guardie mentre venivano sopraffatte, Nan realizzò di non poter stare a guardare. Non si trattò di un moto d'orgoglio, di pietà o di onore; semplicemente, se avesse permesso all'evasione di aver successo, probabilmente anche lui sarebbe stato ritenuto responsabile... o peggio, la struttura sarebbe stata chiusa, e lui trasferito da qualche altra parte.
Fu così che, seguendo il più meschino, basilare ed egoista degli istinti, lo stesso che lo aveva guidato lungo quella spirale di progressivo decadimento, Nan si calò da una delle finestre del suo piano, tagliando le sbarre con una ninjutsu di vento per poi scenderne tre camminando lungo il muro. Qui, giunto di fronte all'uscita, attese i duecentocinquanta e più detenuti. La mancanza dei sigari gli aveva praticamente azzerato la sensibilità facciale, e anche mani e piedi non tornavano completamente nitidi, ma non ci volle molto prima che prendessero a bruciare man mano che la marmaglia gli arrivava addosso. Donne, uomini, scoprì che si trattava di un carcere misto, ma la cosa non lo turbò affatto; dapprima uno per uno, poi tre, fino a dieci alla volta menò le mani ammassandoli esanimi per il cortile.
Alla fine, tumefatto e sanguinante, avanzò verso la guardiola dove tre secondini si erano asserragliati. Scambiò un'occhiata con ciascuno, poi, incurante del terrore nei loro sguardi, alzò tre dita per le prime tre richieste che gli saltarono in mente.
Due erano piuttosto ovvie, dato che erano state le sue uniche preoccupazioni per l'intera prigionia... la terza gli venne strada facendo.
Ed iniziava già a dubitare che l'avessero anche solo presa in considerazione quando, finalmente, le sbarre della cella si aprirono con un cigolio. Ad entrare nessuna delle guardie atterrite che lo avevano visto in azione, ma un uomo alto, massiccio, coperto da un mantello così nero da attrarre l'ombra in ogni angolo. Non stava fumando, ma assieme a lui entrò l'odore ricco e pungente della foglia che aveva smerciato per anni nel continente occidentale... e quando parlò, ogni dubbio residuo circa il luogo in cui si trovava venne messo a tacere.
Con Himura Koshima, ufficiale al comando della regione in cui il penitenziario si trovava, il fumatore strinse un accordo. Lungi dal chiedere compensazione per il tempo passato in prigione, Nan domandò al Generale di poter essere internato nuovamente, senza ulteriori indagini sul suo conto, e di poter fumare uno dei suoi sigari.
Ignorando del tutto l'ultima, il soldato non gli nascose la propria diffidenza fin dal principio. Era chiaro quanto lo considerasse pericoloso, specialmente ora che il suo addestramento come shinobi era venuto alla luce, e fece presto ad aggiungere che non vi sarebbe mai stato più posto, per lui, tra quelle sbarre. Il Villaggio della Sabbia l'avrebbe eliminato o esiliato, stava al vecchio scegliere quale delle due... e Nan era stanco di vagabondare.
Sorrise, realizzando di non aver davvero nulla da perdere, ed un momento prima di venire a patti con la propria decisione il fumatore propose quello che alle orecchie di chiunque, in quella stanza e fuori, sarebbe suonato come follia: servire il villaggio per il resto dei suoi giorni, non avere alcuna aspirazione oltre il bene di Suna, rimanere sotto il controllo vigile e diretto di nessun'altro che Himura. Le parole gli sfuggirono senza quasi che l'uomo avesse voce in capitolo, e, quando nuovamente rivolse lo sguardo verso il soldato, Nan si aspettò di vederlo scoppiare a ridere.
Invece trovò una maschera di pietra, inespressiva, immobile, l'oscurità degli occhi attraversata da chissà quale turbinio. Impossibile dire cosa le sue parole avessero suscitato nella mente del Generale, ma quando senza dire altro Himura Koshima portò una mano dietro la schiena, rapido, Kitsuen avrebbe scommesso la propria esistenza sul vederla tornare con un kunai.
Fu invece un sigaro ad atterrargli in grembo; complicità? Responsabilità? Condanna? Non gli fu mai dato sapere cosa rappresentasse quel gesto, e mai lo chiese, perché il comandante abbandonò la cella prima che altro potesse essere aggiunto.
Nemmeno ventiquattro ore dopo era fuori, in mano il coprifronte del villaggio, davanti neanche la vaga idea di cosa lo aspettasse. Lo sistemarono in una casa vicino alla caserma sud del villaggio, un piccolo appartamento arroccato in una delle torri più tozze che avesse mai visto, con l'obbligo di presentarsi quotidianamente per firmare la propria presenza. Himura non si fece più vedere, ma Nan poteva sentire la sua presenza aleggiare dietro ogni singolo ordine che gli veniva dato.
Dapprima venne il suo esame genin; Nan finì bocciato due volte allo scritto, quindi, quando riuscì a passarlo, quasi ammazzò l'istruttore chunin nella prova pratica. Le sue abilità non passarono inosservate, specie quelle relative all'uso del fumo, né il fumatore fece alcunché per nasconderle: se Suna avesse iniziato a vedere nel suo vizio un vantaggio, sarebbe stata una vittoria per tutti... cosa che, puntualmente, accadde. Congiuntamente al lavoro sul Kemuri Ninpou ai fini delle missioni che iniziava ad intraprendere, Kitsuen iniziò infatti a farsi un nome come sigaraio vendendo il prodotto di ciò che comprava e, col tempo, coltivava per proprio conto. Il terreno duro ed arido del deserto non si prestava eccezionalmente alla crescita delle foglie, ma vento, sole e calore erano in grado di curare il tabacco in maniera pressoché perfetta. In molti iniziarono a comprare da lui, anche se la parola data non gli consentì mai di crearsi un vero giro d'affari.
Divenne chunin nemmeno una settimana prima che la notte scendesse per divorare il giorno, assieme alla nuova serenità che Nan aveva conquistato.
Watashi si rivelò per il mostro che era, spandendo la propria Progenie per il Continente e spazzando via ogni resistenza limitrofa al Paese della Cascata. La risposta di Suna, che pure era stata toccata solo marginalmente dalla prima ondata, fu immediata. Ogni shinobi venne dapprima messo in allerta, quindi inviato fuori dalle mura nella miriade di operazioni che seguirono; il Fumatore non fece eccezione. Prima impiegato nell'evacuazione di civili, poi immediatamente nella difesa degli accessi alla rete di tunnel sotto le sabbie, quindi come scorta per le linee di rifornimento che arrivavano dal nord, Nan vide la sua parte di scontro pur non allontanandosi mai dall'ombra di Himura Koshima, ora Hachidaime Kazekage. Il Generale pretendeva rapporti costanti, e dagli shinobi di cui non si fidava li richiedeva doppi, perciò quelli di Kitsuen erano tre volte più dettagliati e frequenti. Ben presto, tuttavia, anche il Paese del Vento dovette spostarsi sulla difensiva, e a mano a mano che la situazione sfuggiva al controllo della Sabbia Nan faceva lo stesso con la sorveglianza del suo Kage. Il villaggio dovette servirsi di lui non più come subalterno, ma come caposquadra, e benché il vecchio conservasse bene in mente la maniera in cui la sua carovana era finita trent'anni prima, giunse al punto di non potersi tirare indietro. Di operazione in operazione, di sacrificio in sacrificio, il suo modus operandi nel difendere gli accessi ai tunnel e a Suna gli guadagnò una nuova nomea tra chi lo guidava e chi lo seguiva, una legata al fumo non come vizio o mestiere, ma come arma. Divenne la Volpe Grigia della Sabbia, e lo rimase per tutto il resto del conflitto.
Alla vigilia dello scontro finale fece parte del contingente ancora abbastanza in forze da accompagnare il Kazekage fino a Kumo, ma l'esperienza acquisita e mostrata sul campo fece sì che venisse impiegato nelle retrovie, con l'obiettivo di difendere il villaggio e coprire la ritirata della forza principale. Comandante della squadra, scoprì ben presto, era lo stesso jonin che lo aveva messo fuori combattimento il giorno in cui aveva finito di vagabondare per il deserto: Hojo Maeda, La Sentinella, un armadio a due ante in grado di fermare un treno in corsa. Assieme supervisionarono l'applicazione delle strategia di difesa della Nuvola, piazzando un numero impressionante di trappole laddove la probabilità di venir sopraffatti era maggiore.
Ma la battaglia non sarebbe terminata senza il suo pegno in sangue e sofferenze: separatosi dal resto della squadra, stremato e tenuto in piedi solo dal briciolo di responsabilità che il Kazekage gli aveva tributato, Nan vide Hojo e gli altri tre compagni emergere dall'oscurità in piena ritirata. Davanti a loro uno stretto passaggio montano, l'ultimo della linea difensiva, alle loro spalle una creatura terrificante, enorme, l'ennesima, non fosse stato per la scelta che forzò il fumatore a compiere.
Incapace di trovare altra opzione, e realizzando immediatamente che far saltare le cariche lungo i fianchi del valico sarebbe stato l'unico modo di arrestare la Progenie, Nan attivò la trappola mentre gli shinobi erano ancora nel raggio del crollo. L'esplosione sommerse la montagna nella polvere, uccidendo due militari, ferendone gravemente un terzo e privando Hojo dell'udito dall'orecchio destro.
Fu quella l'ultima azione prima di rivedere la luce del giorno, prima dei festeggiamenti, per quanto brevi. Nan venne ripagato per il suo operato, per la morte di decine e decine di shinobi ai suoi ordini, con il rango di jonin, ed una volta rimesso piede a Suna il vecchio seppe di non poter più trattare la promessa fatta ad Himura come un'altra, ennesima fuga dall'eterno vagabondare che aveva scandito la sua esistenza. Quella nuova vita era la più simile possibile a quella di Daisuke Homura, e benché il nome fosse un altro, ed altro fosse il villaggio da servire, Nan sentì che il sangue versato per la Sabbia avrebbe costituito un legame non facile da sciogliere.