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[NOME]: HIDEAKI - 秀明 - Eccellenza scintillante
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[COGNOME]: Murakami - 村上
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[CLAN]: Bakuton
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[ASPETTO FISICO e CARATTERIALE]: Come sono di carattere.. bella domanda, dico davvero, vediamo cosa riesco a scrivere. Sono.. un bambino complicato, spesso insicuro e in cerca di un qualcosa che non riesco a comprende.. il tutto nascosto dietro una maschera di presunzione e saccenteria. Molto spesso mi definiscono: metodico, ossessivo, puntiglioso, severo, un tipo da “tutto o niente”, iroso.. ma sinceramente non credo che tali appellativi mi calzino in pieno questo perché forse mi ritengo meglio di quanto sia veramente o semplicemente credo di non essere ben compreso. Mi fido poco di chi mi sta vicino, chiunque esso sia, ciò rende tutte le mie relazioni moolto più complicate di quanto effettivamente sono, contornandole di sfumature che solo io vedo o di “film” tutti miei. Quando faccio un qualcosa sono molto pesante, questo lo posso concedere, severo e fissato tanto da isolarmi da tutto e tutti quando serve. Negli hobby, invece, risulto molto più affabile e sereno, seppure sono stato baccagliato più e più volte per la mia “precisione” come se essere precisi sia un difetto..ma non riesco a capire. Il mio motto preferito è: "La vita va vissuta e dedicata.”
Alto 1.42 cm, ha una corporatura muscolosa, allenata. La perfetta forma fisica garantisce assieme alle sue caratteristiche base una notevole agilità, prontezza nei riflessi e forza. Ha un viso appuntito, labbra sottili e vermiglie, naso retto, fulgidi occhi violetto, cangianti. I capelli sono d'un naturale color corvino, lunghi fino alla nuca, lisci. Indossa, quando deve andare in accademia o quando andrà in missione, una maglietta a mezze maniche bianca e un paio di calzoncini marroni, ai piedi degli scarponi chiusi. Si copre bocca e naso legandosi una bandana marrone, cosa che lo porta ad assomigliare a un bandito.
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[STORIA]: 8 Giugno 238 DN, è il giorno in cui sono nato.
«Non decidi quando e in che famiglia nascere, altrimenti tutti eviteremmo luoghi ostili o di disgrazia, tu, però, hai il potere più grande: quello di decidere in che modo usare la vita che possiedi.»Con queste semplici parole mio padre mi lasciò, andando al fronte con molti altri uomini, per non fare più ritorno. Era uno shinobi, il mio vecchio, uno di quelli che per vivere uccideva, senza remora alcuna o sorta di pentimento. Il resto del mondo lo poteva considerare feccia, un individuo spregevole, un approfittatore e assassino, qualcuno da cui tenersi alla larga e disprezzare ma lui, insieme a molti altri, era mosso non solo dal becero desiderio di conquista ma dal voler portare a casa qualcosa per riempire lo stomaco, il proprio e il mio. Certo amava la vita da shinobi, sarei ipocrita a negare che nei suoi occhi non vi fosse stato un certo scintillio quando partiva per nuove “avventure”, ma sono convinto che se non fosse nato in questo luogo sarebbe stato una persona come tante altre, magari un mercante, un fiorista, un contadino.. anche se l'avrei visto particolarmente bene come calligrafo. Spesso, magari dopo mesi di assenza da casa, tra una sigaretta e un bicchierino di sake, lo si poteva ammirare nell'arte dello shodo. Molti suoi compagni d'armi lo ammiravano per questa sua dote. Si creò un arazzo che lo doveva simboleggiare e lo appese dinanzi l'uscio di casa - dove si trova ancora -. Scelse il kanji 四 -si scrive “schi” ma si pronuncia “sci”, vuol dire quattro- . Quattro come gli obblighi che formavano il suo nindo.
«Il mio Nindo? Hahaha, ma dove l'hai sentita quella parola? Io mica sono un esaltato... questo è un lavoro.. non serve una morale per farlo hahah. Ok, ok.. allora vediamo, vediamo...
Primo; non odiare, è di certo più dispendioso in quantità di tempo e di energia che perdonare e andare avanti
Secondo: non fidarti di chi è troppo amichevole, con tutta probabilità sta escogitando qualcosa alle tue spalle
Terzo: contratta sempre i prezzi al mercato, quei maledetti cercano sempre di farci la cresta sopra
Quattro: Non arrenderti mai, affronta sempre la vita al massimo e ricorda sei sempre tu il capitano della tua nave.»Quando al villaggio arrivò voce che il suo team era stato massacrato e che solo un uomo era sopravvissuto, che non era il mio vecchio, avevo da poco compiuto sette anni. Ricordo che i primi mesi li passai per lo più sotto il drappo “Schi” a piangere e ricordare, sognando che da un momento a l'altro il mio famigliare apparisse all'orizzonte con il suo solito sorriso gaglioffo e un sacco di iuta sulla spalla.
«Shisui era un bravuomo, un ottimo soldato, se hai ereditato anche solo metà dei suoi geni mi sarai d'aiuto, ora vieni.. ti ho comprato dalla vecchia Yo, da ora lavorerai da me come garzone.»Fui accolto invece in casa di un suo vecchio commilitone, un uomo anziano ormai andato in “pensione”, che mi prese con se come aiutante. All'età di cinque anni avevo iniziato a fare qualche lavoretto, come andare nei cunicoli più piccoli delle miniere alla ricerca di materiali o per piazzare esplosivi, il tutto per una manciata di Ryo, ma fui presto indirizzato verso le risaia, sotto la vecchia Yo, infine il commilitone mi prese con se e divenni un “fabbro” come era lui. Non era malaccio come posto, se non ci si faceva caso al caldo boia e della puzza. Un fabbro in un villaggio non si occupava solo delle armi ma anche di attrezzi agricoli o meccanici, in sostanza era colui che permetteva a tutti di lavorare, quando si rompeva un qualsiasi oggetto in ferro chiamavano il fabbro.. persino quando si doveva fare i ferri ai cavalli e metterli lo si chiamava: si, il lavoro comprendeva essere maniscalchi.
All'età di otto anni incominciai gli studi in accademia, forse sperando che tutto questo potesse in una maniera contorta avvicinarmi al mio vecchio, ma ciò mi rese forse più triste che felice. Più andavo avanti negli studi più dubbi e paure si andavano a insinuare nelle mie certezze, si aggiunse poi la faccenda di Watashi e il caos che avrebbe causato. Molti studenti abbandonarono l'accademia in quel periodo, molti genitori erano preoccupati per la loro sicurezza, io d'altronde decisi di restare e continuare, cosa che non fece piacere al vecchio fabbro che decise di farmi una bella ramanzina. Ero portato, questo si, ma forse ai suoi occhi era meglio non fomentarmi.. il timore che potevo prendere una brutta strada o tentato di imitare il mio genitore lo terrorizzava. Passò così qualche tempo, la mia vita era piatta. Svegliarsi – Colazione – Accademia – Pranzo al sacco – Fucina – Cena. Alcune volte riuscivo a trovare qualche ora libera, che passavo in miniera - racimolando qualche ryo exstra – ovviamente tutto all'insaputa del fabbro . Ciò che nessuno si poteva aspettare era che a dieci anni avrei risvegliato la mia innata...
CITAZIONE
17 Agosto 246
Il sole batteva cocente sul terreno roccioso, rendendo l’aria afosa. Solo poche sferzate di vento davano pace ai lavoratori, per lo più emigrati di altri paesi e abitanti dei villaggi della zona che trasportavano pesanti carrucole colme di pietre grezze al di fuori delle alte montagne, o le spingevano vuote nuovamente al loro interno. Lo sfregare delle ruote di metallo sulla terra sollevava nugoli di polvere, che si sollevava e appiccicava alla pelle dei presenti, bagnata dal sudore, regalando alla loro pelle sfumature marroni. Ogni tanto qualche folata più forte delle altre gli regalava oltre che un po’ di respiro anche l’odoroso profumo del mare al di là dei picchi montuosi. Per quanto ognuno di loro desiderasse fermarsi e godere di quelle carezze che parevano giungere da lontano, non poteva permettersi il lusso di un profondo respiro: gli occhi attenti degli attendenti seguivano i loro movimenti, monitorando che ogni cosa proseguisse a dovere. A ridosso di una parete rocciosa, sopra un’impalcatura di legno dall'aspetto fatiscente, due uomini osservavano lo svolgersi dei lavori; in realtà solo uno dei due stringeva gli occhi seguendo i movimenti degli operai, l’altro aveva lo sguardo rivolto verso diverse carte sparpagliate sopra un tavolo posto di fronte a loro. L’uomo al suo fianco emise un gemito di disgusto misto a disapprovazione, per poi spostare l’attenzione verso l’altro: «Capisco sia una manodopera conveniente, ma non riesco a sopportare il tanfo che emanano queste fetide bestie.» disse con tono aspro. «Ne abbiamo già discusso» gli rispose dopo diversi secondi e un profondo sospiro «Non ho intenzione di cambiare i miei manovali solo perché il tuo naso è troppo delicato per la loro puzza. Pensi di avere un odore più piacevole in questo momento?» gli chiese, alzando finalmente lo sguardo dai fogli e spostandolo sul viso del suo interlocutore, le sopracciglia sollevate in un’espressione di eloquente sarcasmo.
Toshio Ozaki era un uomo rispettato nell’ambiente degli scavatori. Era da anni a capo di quella cava, e per quanto non provenisse da nessuna famiglia altolocata, non era di certo il tipo di persona da non prendere sul serio. L’uomo al suo fianco – poco più di un ragazzo in verità – era il rampollo del proprietario della miniera, ed era stato proprio quest’ultimo ad assegnargli il compito di insegnargli il mestiere, fagli capire come funzionava il lavoro in modo che fosse pronto a raccogliere l’ingente eredità quando fosse arrivato il momento. Personalmente Toshio augurava al vecchio che tirasse le cuoia il più tardi possibile, perché il ragazzo, estremamente schizzinoso e con la puzza sotto il naso, avrebbe dovuto masticarne di roccia e polvere prima di poterlo ritenere all’altezza. Come a conferma dei suoi pensieri il ragazzo lo guardò con stizza, oltraggiato dalle sue parole, ma fu abbastanza furbo da non replicare, e tornò a osservare con astio i lavoratori sotto di lui. Il suo sguardo si posò su un gruppo di minuti pellegrini dalla carnagione scura; erano veramente piccoli ed emaciati, tanto che non capiva come fosse possibile che riuscissero ad avere abbastanza forza da spingere le pesanti carrucole. Li studiò silenziosamente per diversi minuti, scrutando i loro lenti movimenti, come le lunghe dita si posavano sui pezzi di roccia frantumata dai picconi, depositandoli con cura sopra i cumuli già disposti. La mancanza di sbuffi e lamenti catturò l’attenzione di Toshio, che si voltò nuovamente a guardarlo; seguì il suo sguardo, fino ad arrivare all’oggetto del suo interesse. «Grandi lavoratori, i Tuareg.» sentenziò, facendo sussultare il ragazzo. Lo guardò con espressione scettica ma Toshio sostenne il suo sguardo, certo della propria affermazione. «Sembrano gracili, ma è tutta apparenza: in realtà sono resistenti e tenaci. Del resto l’unica cosa che gli è rimasta da vendere è la loro pellaccia, e la vendono a caro prezzo». Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, perplesso. Il volto di Toshio si contrasse in un’espressione divertita: «Pensi che se uno di loro avesse anche solo un’alternativa sceglierebbe comunque di vendersi a un uomo di Iwa? No, decisamente. Il disgusto che tu provi per loro è totalmente ricambiato. Non gli è rimasto più niente nella vita, sono emarginati e disprezzati dalla loro gente. La loro unica possibilità di sopravvivere è piegare il loro orgoglio e abbassarsi a questi umili lavori. Hanno perso tutti qualcosa a causa di Watashi, molti l'intera famiglia, altri la voglia di vivere e altri ancora la sanità mentale. Almeno qui hanno un pasto caldo garantito, il che non è male, di questi tempi!» l’uomo sbottò in una risata amara, mentre il ragazzo tornava a guardare i ragazzi Tuareg che erano ormai all’ingresso della cava, pronti a scomparire oltre la soglia.
I lavori proseguirono per il resto del pomeriggio, mentre il sole proseguiva il suo corso nel cielo, curvando verso l’orizzonte. Nel largo spiazzo polveroso al di fuori della cava erano rimasti pochi manovali e per lo più gli attendenti, che aspettavano la fine del turno nella miniera per poter finalmente abbandonare quel luogo lurido. Mancava veramente pochissimo al termine di una giornata comune a tante altre, quando all’improvviso la terra tremò. Fu una scossa violenta, che fece vacillare i ponteggi, scardinando i più vecchi e i meno resistenti. Gli uomini si accovacciarono al suolo, portando le mani sopra la testa, pronti a proteggersi da eventuali crolli. Il tremore passò com’era venuto, ma dopo brevi secondi, come il tuono che segue il lampo, giunse chiaro alle loro orecchie un poderoso urlo, che scosse la montagna quasi con la stessa intensità del terremoto. Un folto gruppo di lavoratori sgusciò fuori dalla montagna correndo disperatamente, come uno sciame d’api terrorizzato. Toshio e alcuni dei suoi uomini gli si precipitò incontro e fu accolto da centinaia di grida, in lingue e accenti differenti, che significavano un’unica parola. L’uomo sgranò gli occhi incredulo; si guardava intorno, disperato, osservando quella congerie di etnie agitarsi terrorizzate, cercando di allontanarsi il più possibile dalla montagna, desiderosi di mettere una cospicua distanza. Il figlio del proprietario, dopo essersi assicurato di non aver riportato danni e che la situazione era abbastanza sicura da potersi spostare dal suo rifugio, si avvicinò al capannello di uomini, raggiungendo il fianco di Tosho. «Che è successo?!» gli chiese, osservando i lavoratori in preda al panico, per poi spostare lo sguardo sull’uomo. Quello si voltò lentamente, gli occhi sgranati in un misto di stupore e paura. «Che stanno dicendo?» chiese nuovamente il ragazzo, allarmato da quell’espressione. «Un… demone. Un demone nella cava».
Furono subito chiamati gli Anbu del villaggio della Roccia, che nel giro di poche ore iniziarono a indagare sull'avvenuto. Watashi era stato da poco sconfitto e i suoi figli, almeno teoricamente, erano scomparsi con lui. Dopo due giorni di controlli, perlustrazioni e esplorazioni all'interno i cunicoli, ciò che tirarono fuori dalle profondità della montagna furono cinque ragazzini, tra i sette e i tredici anni, tra cui vi ero io. Non appena ci interrogarono la verità venne a galla: Il tunnel 237-B,nel condotto Nord-Est, alla profondità di 2,1 km era collassato a causa di alcune impalcature in legno montate male. Cosa normale, in verità, questo genere di incidenti era all'ordine del giorno. Il caso volle che a essere coinvolto era il gruppo di perlustrazione F, formato da sei bambini e due adolescenti. Quando le macerie iniziarono a caderci in testa, pronti a schiacciarci a morte, il mio corpo ricevette come una scossa che mi surriscaldò tanto da generare diverse esplosioni. Le deflagrazioni furono tali da peggiorare il crollo, rendendo il tunnel del tutto inutilizzabile. Il resto lo fece lo stress e la paura regressa di Watashi, generando una pandemia tale da portare le menti dei minatori a pensare di aver visto un membro della progenie all'interno di quei scavi. Fui medicato e riportato al vecchio fabbro, che mi teneva in custodia. Fu proprio quest'ultimo a punirmi pesantemente, visto che avevo accettato quel “lavoretto” senza informarlo ne chiedendogli l'autorizzazione.
«Quindi fai parte del Clan Bakuton, questo si che è una svolta interessante. Domani ti accompagnerò alla sede del clan, devi imparare a controllare la tua kekkai, ci manca solo che mi fai saltare in aria la fucina»Provai qualche volta a chiedere se anche mio padre facesse parte del clan Bakuton, visto che io non l'avevo mai visto frequentare persone di quel clan o utilizzare la kekkai, ma il vecchio non mi seppe rispondere, lasciando così il mistero su come potessi avere una simile innata.
Qualcuno, ormai, si starà domandando il motivo per cui ancora non ho mai parlato della donna che mi ha messo al mondo, ecco, ovviamente la risposta è tra quelle più banali e scontate, in effetti esiste, non sono mica un pupazzo creato in laboratorio, o per meglio dire esisteva. Secondo i racconti di mio padre era una donna cagionevole di salute, che conobbe durante una sua missione e di cui si innamorò. Ebbe una breve relazione con lei per poi abbandonarla e tornare al villaggio quando il suo lavoro in quella zona finì. Nove mesi dopo si fece vivo il fratello, con un frugoletto in braccio e una sua lettera. Mio padre dopo aver letto le ultime parole di quella donna, mi dichiarò suo figlio legittimo e mi allevò. Da quel giorno non ci furono più contatti con la famiglia di mia madre. Lei era morta, e i suoi parenti erano nomadi vagabondi.. questa fu la sua spiegazione, alquanto semplicistica, e me la feci bastare.
«Se tuo padre ti ha detto questo vorrà dire che i fatti sono andati in quella maniera, eravamo compagni di bevute e di lavoro.. non confidenti. Ora non farmi perdere altro tempo! Ho promesso a Gihei che il suo ordine sarebbe stato pronto in serata»Il vecchio fabbro sapeva qualcosa questo era certo ma aveva preferito avallare ciò che mi aveva detto Shisui e chiudere così la faccenda.
Nei due anni seguenti non feci più alcuna domanda sulla mia famiglia, ne cercai altri lavoretti “illegali” alla miniera – il mio tutore mi seguiva a vista manco fossi un serial killer -, ma puntai tutto sullo studio in accademia e alla sede del clan. Era inutile pensare al passato, meglio occuparsi di qualcosa di più proficuo...