Orfanotrofio - Oto
20 Ottobre 252
Non passa giorno, da quando sono qui, senza che mi manchi casa mia. Ci è stato inculcato che la vita è dura, che
cose del genere possono accadere a chiunque, purtroppo. Qui, non mi è permesso avanzare pretese di nessun tipo, perché il mio caso non è speciale, né poi così diverso dal destino toccato ad un altro bambino. Sono tutti orfani, qui. Oltretutto, i bambini dell'Orfanotrofio sono perlopiù figli di guerrieri di Oto caduti in battaglia o nell'adempimento del loro dovere.
Ninja, così vengono chiamati gli assassini appartenenti ai ranghi militari del Paese. C'è chi si mostra fiero di essere figlio di eroi di guerra, ma la verità è che, qui dentro, tutti ci sentiamo inevitabilmente soli. Io in particolar modo, dato che sono l'unica bambina ad essere del tutto straniera a questo Paese; nessuno degli altri ospiti dell'Orfanotrofio ha sentito mai parlare di Netsuyama, figuriamoci del piccolo centro di Uji. Eppure no, non è questo il solo motivo per il quale vengo costantemente umiliata, derisa ed evitata dagli altri bambini. Non è il mio Paese di provenienza a rendermi diversa da loro.
Sono sorda, questo è il problema. Questo è ciò che nessuno di loro, purtroppo, sembra disposto ad accettare. Non mi capiscono, né io sono in grado di comprendere loro. Ho tentato all'inizio, di comunicare per iscritto, ma nessuno mi è sembrato interessato e disposto a compiere quello sforzo in più, pur di farmi sentire parte integrante di qualcosa. Oltre Ryoshi, che ogni tanto viene a farmi visita, l'unico contatto positivo che ho avuto è quello con quel ragazzo misterioso.
Il giocattolaio, se non ho capito male. È stato lui a tentare di costruire una connessione tra me e gli altri, l'unico a conoscere il linguaggio dei segni... e sempre lui a regalarmi il gattino di pezza che mi tiene compagnia, nel buio e nel silenzio della mia stanza. È un giocattolo vecchio e malandato, fatto a mano chissà quanto tempo fa, ma non importa: in un certo senso, è l'unica cosa vera che sono riuscita ad ottenere qui dentro. E per me, è comunque meglio di niente.
L'ho portato con me, stamattina. In cortile, approfitto di uno spiraglio di sole, in questo Ottobre che finora ha riservato per lo più nuvole e pioggia, per dipingere all'aria aperta. Sto ancora lavorando per perfezionare i tratti della Tigre, quando sento qualcosa strattonarmi i capelli. La presa fa male, l'istinto mi suggerisce di assecondare il movimento anziché oppormi, per alleviare il dolore... e così mi giro, per vedere non quel qualcosa, ma il
qualcuno che mi sta facendo del male. È Daisuke, con la sua solita banda di teppistelli. Sono tutti più grandi di me, dovrebbero avere quattordici, forse addirittura quindici anni. Con la coda dell'occhio, riesco ad incontrare le iridi di lui, scure come i suoi capelli, di un nero pece non molto diverso dal mio inchiostro. Mi dice qualcosa, vedo le sue labbra muoversi, ma non riesco a capire di cosa si tratti. Provo ad allungare le braccia per liberarmi dalla presa, ma è più alto di me; gli basta alzare la mano a sua volta, strattonando di più i miei capelli, per impedirmi di arrivare fin lì. Poi fa un cenno ad un altro, un biondino, che come un bravo soldatino esegue gli ordini del suo capo e si impadronisce del gattino di pezza, che ho lasciato sui gradini dell'ingresso, insieme alla pergamena sulla quale stavo disegnando.
Ha in mano quello che sembra un... kunai? Guardo la lama sgranando gli occhi, terrorizzata. Non ci è permesso detenere oggetti pericolosi, dentro l'Orfanotrofio. È una regola rigida che ci è stata imposta, per ottime ragioni... dopotutto, se siamo qui, è anche perché i grandi vogliono tenerci d'occhio, perché sanno che rimanere orfani in tenera età possa renderci
disturbati. In qualche modo, però, Daisuke e i suoi devono aver superato i controlli, nascondendo quel coltello chissà dove. Il biondo, Kawamaru, solleva il gattino e gli punta la lama alla gola, come se volesse tenerlo in ostaggio.
Lascwawo stawe. Ridawmwelo!
Provo a farmi capire, sono abbastanza sicura di esserci riuscita. Ma la reazione è prevedibile, non diversa da quella delle altre volte in cui mi hanno maltrattata. Ridono, come se la mia voce orrenda fosse un trofeo da esibire, un abominio che mi hanno tirato fuori con la forza, un'impresa di cui andare fieri. Sento le lacrime rigarmi le guance, calde, bagnarmi gli occhi fino ad appannare la vista. Kawamaru affonda la lama nella pezza, dilaniando il mio giocattolo, mentre Daisuke tira più forte la mia chioma, fino a farmi
davvero male. Lo sento ridere dietro di me, sento la sua voce simile ad un rumore ovattato, che però distinguo chiaramente. Così come percepisco, provenire da
dentro, una rabbia che ormai mi appartiene da mesi.
Sono stanca di essere esclusa.
Stanca di essere derisa, maltrattata, percossa o minacciata.
Stanca di Daisuke, Kawamaru e degli altri ragazzi che si prendono gioco di me.
Stanca di questo maledetto posto.Non ci penso nemmeno, le mie mani si muovono da sole seguendo l'istinto. Sopravvivenza? No, non credo. Quando realizzo di aver evocato il chakra, mettendo a frutto gli allenamenti a cui mi sono dedicata negli ultimi mesi per affinare le arti del maestro Zhen, vado nel panico.
Non posso averlo fatto davvero.Il mio incubo prende forma, proprio come la Tigre che si materializza dalla pergamena. Minacciosa, balza accanto a me, azzannando Daisuke sul fianco e costringendolo a mollare la presa. Indietreggio preoccupata, ma sono così terrorizzata da non riuscire a reggermi in piedi. Le gambe e le mani tremano, così inciampo, cadendo di sedere. Proprio davanti al ragazzo, quanto mi basta per mettere a fuoco le chiazze di sangue che gli insozzano i vestiti. Le zanne della Tigre sono andate a fondo e lì restano, immobili. Paralizzate come me, la sua evocatrice. Aspettano un mio ordine, non sanno se dilaniare ancora la carne o se lasciare la morsa, aspettano me... ma io, non so che fare. Con i capelli scompigliati, tra le lacrime, l'unica cosa che riesco a fare e piangere, mentre avvolgo le braccia tremanti intorno a me e avvicino le ginocchia al petto.
Che cosa ho fatto?Partiamo katifi