Utsunomiya, Tetsu no Kuni.
13 Luglio 251, ore 22:58.
Fuori dalla locanda, la tempesta continuava ad imperversare. Mentre la pioggia tamburellava sulla finestra, Namida faceva lo stesso con le dita, picchiettandole ritmicamente sulla scrivania della sua camera. Tentò di osservare oltre il vetro appannato e umido, ma non riuscì a scorgere nulla al di fuori di alcuni clienti che si allontanavano, per fare ritorno alle proprie dimore prima che il temporale si facesse più opprimente. Dopo qualche secondo, però, eccola. La chioma vermiglia di Kimura Akio, appena visibile al di sotto del cappuccio che la proteggeva dal vento e dalla pioggia. Una ragazza di appena vent'anni, tanto bella quanto tormentata dalle catene a cui era sempre stata relegata. A soli quindici anni, era stata affidata in sposa ad uno dei più rinomati samurai della cittadina di Utsunomiya, località dimenticata tra le gelide catene montuose del Paese del Ferro. Hayashi Kanjiro, un uomo di quarantasei anni che, dalla vita, aveva ricevuto tutto ciò a cui una persona potesse ambire: denaro, una posizione di prestigio ed una moglie affascinante e devota. Un samurai degno di tale nome, almeno di fronte all'opinione pubblica... perché dopotutto, ciò che Akio gli aveva raccontato, prima di finire sotto le sue coperte, era ben diverso da quel riflesso costruito e consegnato alla società, spoglio di vizi e segreti. Lui l'aveva sempre trattata con disprezzo, mentre lei, non potendo far altro che sottomettersi, aveva accettato mestamente, per anni, tutto ciò che lui le aveva riservato. Adulterio, insulti, percosse. Consolata dal carisma di Fuyuki e dal tepore del suo corpo, la giovane Akio aveva dimenticato, anche se solo per qualche ora, interi anni di soprusi e sofferenza. Tuttavia, vedendola lì, sotto la pioggia, pronta a rincasare da un marito che non la meritava, il Jonin non provò né angoscia, né tristezza o compassione. Allungò la mano verso l'estremità della scrivania, là dove la fanciulla aveva lasciato un paio delle mutandine che lui le aveva strappato di dosso. Si concesse un dolce sorso di shochu, prima di affondare il volto nella stoffa ed inebriarsi dell'odore di fluidi vaginali che la impregnavano. Poi, si accese una sigaretta, con una smorfia compiaciuta, quasi perfida, disegnata in volto.
- Sayonara, Kimura Akio.
Una volta tornata a casa, la giovane avrebbe impiegato un paio di minuti, giusto il tempo necessario per raggiungere la camera da letto, prima di trovare il cadavere di suo marito. Disteso su lenzuola canute, insozzate dal cremisi del sangue che era fuoriuscito copioso dalla gola recisa fino a lacerare le carotidi. Una fine rapida, silenziosa, un sipario forse un po' troppo banale per un uomo prestigioso come Kanjiro. Qualcuno che avrebbe ancora potuto vivere a lungo, se solo non si fosse intestardito nel mettersi sulle tracce del suo discepolo prediletto. Tanaka Mitsuo, un ragazzo di appena diciotto anni, nonché uno dei più promettenti giovani samurai del dojo Hayashi. L'anno precedente, durante uno dei suoi viaggi, Fuyuki lo aveva incontrato e, comprendendone il potenziale e scorgendo un'ardente ambizione nel suo cuore, lo aveva manipolato affinché abbandonasse il dojo e il suo maestro, per unirsi al progetto di Yūgure e raggiungere quindi Yurei, nel confinante Paese del Cielo. Accecato dal suo ego, Kanjiro non aveva mai cessato di cercarlo. Per mesi aveva atteso di trovare delle tracce e l'occasione gli si era presentata quando, sentendo dei moti rivoluzionari e delle sanguinose dinamiche che si stavano consumando a Sora no Kuni, aveva udito parlare di un giovane, senza un occhio, che aveva dimostrato una letale maestria con la spada. Il Guercio, così Mitsuo veniva adesso conosciuto tra le fila della vecchia Resistenza, là dove marcivano i servi più devoti di quel verme di Masao Ryuzaki, il nuovo daimyo del Cielo. Ad ogni modo, preoccupato per la possibile interferenza del maestro, quel ragazzo aveva accennato il suo disagio proprio a Namida - o meglio, Kirai - il suo superiore... e così, quest'ultimo, non aveva esitato un solo istante a togliere di mezzo la minaccia. Durante gli anni trascorsi ad indossare il mantello delle nuvole rosse, del resto, aveva già eseguito incarichi del genere, non molto diversi poi dagli omicidi che aveva collezionato in veste di ANBU di Konoha. Quello di Hayashi Kanjiro, non era altro che il penultimo nome in fondo ad una lista pressoché interminabile di persone che Fuyuki aveva assassinato, per conto di altri o per i suoi scopi personali.
Già, il penultimo.
Ad attendere Akio in quella camera, oltre al corpo esanime del marito, vi era anche un bunshin del Jonin. Appostato lì già da prima che la fanciulla, per l'ennesima volta durante quei giorni, avesse aperto le gambe per lui, quella sera. Sarebbe morta anche lei, dunque, per il crimine di essere la sposa di un uomo curioso e per quello di essersi invaghita, senza nemmeno saperlo, di un giovane che era giunto lì, tra quelle rigide montagne, per assassinare Kanjiro, senza lasciare in vita eventuali testimoni. Con aria rilassata, lo shinobi portò ancora alla bocca la sigaretta, aspirandone un tiro piuttosto lungo. Non c'era da preoccuparsi, in fin dei conti. Quando le autorità locali avrebbero trovato i loro cadaveri, qualche giorno più tardi, lui sarebbe stato distante decine di miglia da quella triste e noiosa cittadina. A guastare la serata, però, c'era il solito problema.
"Fottuto mal di testa."
Odiava quella condizione, ma ciò che detestava ancora di più era il non potere farci niente, se non sopportare la cosa. Ne soffriva da più di un anno ormai, ma nelle ultime settimane la frequenza degli episodi di cefalea era aumentata in maniera preoccupante, così come il dolore. Una sofferenza che, quella sera, nemmeno l'alcol pareva essere in grado di quietare.
Quando tuttavia provò ad avvicinare di nuovo il bicchiere alla bocca, la presa si fece meno salda e questo cadde rovinosamente sul pavimento in legno, frantumandosi e lasciando che il prelibato distillato si disperdesse in una pozza viscida e trasparente. Colto da un malore improvviso, Namida scivolò dalla sedia e nel giro di alcuni istanti si ritrovò carponi, per terra, intento a vomitare prima tutto ciò che aveva bevuto, poi saliva e succhi gastrici. Il mal di testa si intensificò, divenendo talmente pungente da distrarlo dall'olezzo del suo alito e dal bruciore all'esofago. Completamente inerme, in balia del malessere, non riuscì a far altro che stringere i pugni con vigore. Ben presto, però, le forze vennero meno e la stretta si allentò, finché le dita non furono completamente distese sul pavimento. Intorno a lui, la camera vorticava in maniera vertiginosamente, in un crescendo che lo portò infine a perdere i sensi ed accasciarsi al suolo. L'ultima cosa che riuscì a percepire, prima di piombare nel buio, fu la schifosa sensazione di percepire il proprio volto a contatto con quel putrido miscuglio, creato dall'unione del liquore e del suo stesso vomito.