[Kumo] - Clan Yotsuki

Se mai c'è stata una leggenda degna di essere raccontata, degna di essere tramandata, è quella che riguarda la discesa del nostro popolo dal tetto del mondo.
Tutti oramai, dalle montagne del Fulmine alle steppe della Terra, hanno udito dei Kazan, e della loro traversata per il nord del Continente. La nostra venuta comportò il più grande dei cambiamenti, ed il più grande degli scontri... ma questa leggenda non narra di quegli anni meschini e caotici; questa leggenda parla di un viaggio, di una promessa e di una sfida, anziché di una guerra.
In un tempo prima del tempo, quando ancora la natura era madre degli uomini, i Kazan si destarono dal loro sonno e, bagnati dal sangue della terra, errarono per le distese sulfuree del tetto del mondo. Nascosti dalla cenere e corroborati dal calore del magma, gli uomini e le donne del nostro popolo sopravvissero e crebbero in numero all'insaputa di tutti gli altri esseri viventi finché, un giorno, ai Kami non piacque che il nostro destino fosse quello di ogni creatura.
Così, dal giorno alla notte, un vento gelido si aprì la strada per il nord, spazzando via la cenere ed insinuandosi tra le calde gole vulcaniche che avevano fatto da culla per il popolo scuro, gelandole con il suo grido incessante. Molti, tra coloro che ancora non si erano destati, rimasero imprigionati nella pietra, e ben presto anche chi era stato risparmiato dovette essere abbandonato. A migliaia, privati del calore natio, i Kazan discesero attraverso l'apertura creata dalla tempesta, affrontando il gelo di un inverno sconosciuto e riversandosi a sud.
Qui vagarono, di deserto in montagna, ancora lontani dall'incontro che avrebbe segnato un'era di scontro. Una catena montuosa vertiginosamente alta separava il popolo scuro da quello bianco, ciascuno ignaro dell'altro, e molti tra i Kazan persero la speranza nel vedere quelle vette scomparire tra le nubi.
Sostarono a lungo tra le pendici, inevitabilmente affrontando i morsi della fame e il freddo dell'immobilità, dovendo sopravvivere di quel che si poteva cacciare e dovendo vestire delle poche pelli rinvenute. Poi, ad un momento dalla disperazione, il cielo si aprì a metà.
Una luce che mai nessuno aveva veduto, un bagliore azzurro e bianco tanto forte da cancellare la notte, calò dalle nubi. Il colpo inferto alle montagne fu spaventoso, così potente da scuotere la terra e così intenso da trasmettere al popolo scuro una traccia, pur minima, del tepore che avevano perduto.
Immediatamente tutti si resero conto del presagio, e pur indeboliti marciarono verso il punto in cui la folgore si era abbattuta, seguendone il riverbero. Nessun'altra stirpe avrebbe potuto resistere tanto a lungo, marciare tanto a lungo soltanto per una goccia di luce, di calore... ma ai Kazan, che avevano vissuto di null'altro da quando erano venuti al mondo, quel bagliore significò ogni cosa: ogni speranza creduta perduta, ogni anelito superstite.
Così avanzarono, nei loro cuori ancora quel tepore e nelle menti ancora il ricordo di quella luce intensa, finché non raggiunsero le pendici della più alta montagna, laddove il fulmine aveva colpito più duramente. Qui, immediatamente fu chiaro che ai più non sarebbe stata possibile la scalata: il picco era spazzato da venti crudeli, tanto violenti da staccare interi costoni con una folata, e trasformare fianchi dolci in ripidi strapiombi.
Così si riunirono un'ultima volta, ad un passo dallo sconforto per decidere chi, tra coloro che ancora fossero in forze, avrebbe dovuto tentare l'ascesa. Ed è a questo punto che, come un fulmine che si avventuri per il cielo, il mito si dirama. Secondo alcuni l'eletto fu Furasshu, Shodaime Raikage, ma tale versione è da scartare immediatamente, dato che la discesa dei Kazan predata il Ninjutsu di almeno sette secoli... altri raccontano che non fu uno a scalare, ma molti, ciascuno in brutale competizione con l'altro... ma è più probabile che ad essere scelto fu un padre di famiglia, un uomo che aveva visto perire tutti i suoi cari durante la terribile marcia.
Non avendo nulla da perdere, triste in volto e privato nel cuore di ogni calore, di ogni luce che non fosse quella della folgore, l'uomo venne ritenuto degno. Iniziò immediatamente a salire, lasciandosi ben presto alle spalle qualsiasi sentiero montano, le mani unico appiglio contro la furia indolente del picco. Rombi profondi scandivano i punti salienti dello scontro tra pietra ed aria, e gragnole di sassi si accompagnavano a raffiche di pioggia, ma all'uomo non restava che la scalata, il tepore evanescente sotto i palmi delle mani, e manciata dopo manciata sempre più in alto, infallibilmente affrontava la tempesta. Le nubi lo avvolsero, accecandolo definitivamente, l'aria si impregnò d'acqua e di elettricità, ed un gelo profondo cancellò ogni dolore, ogni fatica, minacciando di fargli allentare la presa.
Ma egli non mollò, non finché l'ossigeno non scomparve, o finché l'urlo del temporale non rimase un ricordo decine di metri più in basso. Improvvisamente fu libero dal peso delle nuvole, della pioggia e del vento, trovandosi solo con le stelle, con il ghiaccio e con la luna. Nient'altro che un silenzio profondo, tutto attorno, e benché egli non fosse vestito che di stracci usurati, stracciati, il calore della luce che aveva inseguito lo mantenne indenne dal freddo. Eccola, a pochi passi dalla cima, il chiarore intenso abbastanza da cancellare le stelle. Il fulmine si era scavato una nicchia nella roccia, pulsando di un'energia tanto limpida da sfuggire a qualsiasi essere vivente non fosse nato dalla pietra stessa.
Ed ancora, a questo punto, le vicende differiscono. Alcune versioni ci dicono che la luna, invidiosa di quella luce, tese le proprie dieci mani per soffocarla, ma l'uomo la difese. Altre raccontano che il fulmine non si prestò al tocco dell'inviato, sfuggendogli finché questi non ebbe percorso dieci volte la distanza tra noi e la luna. Solo a quel punto, stremata, la luce piovuta dal cielo dovette lasciarsi prendere. Secondo altre ancora, invece, la sfida della luna non fu né di forza né di resistenza, ma di acume, avendo ella posto dieci indovinelli al cercatore, ed avendo questi risposto correttamente a tutti quanti prima di poter raggiungere la luce. Forse ci mentono tutte, forse tutte sono corrette, ciò che conta è che tra la luce del fulmine, l'uomo e la luna si creò un legame, e la sfida che lo suggellò richiese un enorme dispendio di tempo ed energia per venir superata.
Alla fine, tuttavia, il mito è unico e concorde: l'uomo mise mano al fulmine, ed esso, giudicatolo degno, gli corse indosso come un brivido, come radici sulla pietra, per poi scomparire e lasciare la luna unica luce nella notte; Yo Tsuki, la Notte e la Luna, forse proprio questo il nome del padre di famiglia.
Quando ridiscese erano passati quindici giorni dal suo allontanamento, benché egli non li avesse sentiti passare. Molti avevano lasciato le pendici della montagna, scossi nella fede e sfiduciati dal tempo trascorso, avendolo creduto morto... altri erano periti loro stessi, vinti dal gelo, dalla fame e dalla solitudine... ma chi era rimasto dovette alzarsi in piedi all'apparire di Yo, e condividere con lui, al momento del ricongiungimento, il dono che gli era stato fatto.
Di mano in mano, di spirito in spirito, la benedizione del fulmine rinvigorì corpo e mente di chi tanto aveva sopportato, sperato, per arrivare a quel punto. Se il mito ci viene in soccorso, i dieci uomini e le dieci donne presenti al momento della discesa di Yo non furono soltanto i primi rappresentanti del Clan Yotsuki -o perlomeno della discendenza che, in seguito, sarebbe stata conosciuta con tale nome- ma anche i fondatori dell'insediamento che sarebbe divenuto il Villaggio Nascosto della Nuvola. La decisione di non abbandonare a loro volta le montagne, come avevano fatto i loro fratelli, ma di conquistarne le vette, di fare dei valichi traditori e delle ripide scarpate la loro principale difesa, avrebbe cambiato la storia del Continente. Primo tra tutti i Grandi Villaggi, Kumo si sarebbe rivelato al mondo solo molti anni più tardi.