A nessuno piace essere la preda inerme, soggetta totalmente alle volontà di qualcun altro. Takumi non faceva eccezione, ma a differenza di altri aveva la volontà e le abilità per cambiare il proprio destino... O almeno provarci.
Riuscì con qualche sottile cigolio di catene e un fastidioso odore di corde bruciate a liberarsi, e scoprì tastandosi che i suoi kunai erano stati portati via, così come la maggior parte del suo equipaggiamento, bombe, rotoli, qualsiasi cosa fosse chiaramente riconoscibile come utile a qualcosa. Erano rimasti però gli spiedi, fortunatamente sfuggiti alle mani dei suoi perquisitori.
Spiedi che prontamente vennero usati come arnesi da scasso, scopo ben lontano da quello per cui erano stati costruiti. Ci vollero pochi minuti per scassinare quel lucchetto vetusto, ma tra la situazione pesante e l'ulteriore pressione di Matatabi, allo shinobi sembrarono ore.
Nessuno lo vide uscire dalla sua cella ed entrare in quella di Nasai. La ragazza era immersa in quel sonno profondo e malsano tipico delle vittime dei Genjutsu, le palpebre vibravano leggermente malgrado restassero ostinatamente chiuse.
Uno scrollone, nessuna risposta.
Chiamarla sottovoce, nessuna risposta.
Takumi non tentò di usare il Kai, decidendo in anticipo che non sarebbe stato sufficiente. Il Nibi non glielo fece notare, mostrandosi ancora una volta più che felice di tagliare corto e accelerare i tempi della missione.
«Procedi.» Il tempo di quell'unica parola, e Takumi si sentì pervaso da un'energia immensa. Fuoco puro, ma freddo, di quella violenza che faceva capire come sarebbe bastato un niente per scatenare l'apocalisse.
Il chakra di Matatabi si fuse a quello di Takumi, e mezzo istante dopo Nasai spalancò gli occhi, inspirando di colpo come chi esce da una lunga apnea.
«Harada» esalò con un fil di voce, i grandi occhi grigi sgranati che si guardavano attorno. Dopo un iniziale microsecondo di sconvolgimento, era tornata attenta e concentrata, stava studiando il luogo in cui era e la situazione in cui si trovava.
Takumi intanto avrebbe continuato a sentire quello strano, avvolgente formicolio lungo tutto il corpo, in particolare sulle mani. Matatabi aveva mostrato sicuramente una briciola del suo potere, ma quel potere lo aveva bruciato, sebbene non in maniera realmente dolorosa. Era più un fastidio, qualcosa che avrebbe scacciato scrollando le mani e riattivando la circolazione... Ma era un messaggio chiaro: il potere del Nibi non veniva elargito gratuitamente.
«Bello, mi piace come hai arredato la stanza. Quanto siamo nei casini da uno a dieci?»Con un iniziale sforzo si tirò su, si passò le mani sulla faccia -impolverandola sulle guance e il mento- e tornò a guardare Takumi, con lo sguardo attento e serio. Non l'espressione pigra e apatica con cui l'aveva conosciuta, ma nemmeno quella canzonatoria e irriverente dello scherzo del palloncino.
Le bastarono pochi secondi in cui si tastò velocemente per capire che anche lei era stata disarmata.
«Eeee ovviamente mi hanno preso tutto. Anche le gomme. Beh, se provano a masticarle è un problema loro, a me è rimasta solo questa...» Mosse la lingua dentro la bocca, facendo una buffa espressione come se stesse cercando qualcosa, e quando la aprì di nuovo Takumi poté vedere un piccolo bolo rosa chiaro, ridotto di dimensioni rispetto alle gomme che le aveva visto tirare fuori.
«Che è quasi finita, quindi ci servirà a poco, temo.»La ricacciò in qualche pertugio della sua bocca, tornando a parlare come se niente fosse. Ascoltà il resoconto della situazione da parte di un Takumi sbrigativo e rapido, e non lo interruppe mai, comprendendo come il tempo non fosse dalla loro parte.
«Undici, quindi. Va bene, andiamocene da qui e cerchiamo di capire come salvare la situazione.»Il passo successivo consisteva nell'uscire dalla cella. Da lì, dovevano trovare i due ostaggi, liberarli e togliersi discretamente di torno. Punti bonus se avessero pure riportato le Nukenin Futatabi, ma quella sarebbe stata la ciliegina su una torta che già al momento si preannunciava ostica da mangiare.
Usciti nel corridoio non trovarono nessuno. Silenziosi e coi sensi all'erta, iniziarono la loro perlustrazione di quel dedalo di caverne scavate dalla lava nei millenni, fortunatamente ora raffreddata e non più un pericolo. Il rifugio della Mano di Inari era grande, ma non infinito, il difficile era esplorarlo senza attirare l'attenzione.
Quando incontrarono una delle guardie, armata di lancia, non ci furono esitazioni nell'attaccarlo alle spalle e spezzargli il collo prima che potesse emettere un verso. Nasai aiutò Takumi a nascondere il corpo in una delle celle vuote, e fu lei stessa a prendere l'iniziativa dando la stessa rapida morte a una donna che stava trasportando un fascio di legna sulle spalle, incontrata in un corridoio lì vicino.
Nascosta la seconda vittima, a Nasai venne in mente un'idea.
«Assumiamo gli aspetti di questi due. È meno rischioso rispetto all'andare in giro come siamo ora, presto si accorgeranno che siamo evasi.»Malgrado fosse una proposta, il tono era abbastanza fermo e sicuro di sé. Takumi avrebbe potuto accettare o meno, ma se non avesse fornito un piano alternativo la ragazza avrebbe proceduto col proprio.
In ogni caso, i Kami furono dalla loro parte. A guidarli fu l'udito, perché da una sala interna iniziarono ad alzarsi delle voci.
Si trattava almeno di una quarantina di persone, a giudicare dal coro, tutte che cantilenavano salmi impossibili da comprendere nelle loro singole parole. I canti erano accompagnati dal suono di tamburi, lenti e cadenzati, e il tutto trasudava religiosità e ritualistica.
Riuscirono ad avvicinarsi perché nessuno stava badando a loro: tutti gli occhi erano puntati al centro di una grande sala, ricca di affreschi alle pareti raffigurati la dea Inari dal muso di volpe, intervallata a fuochi rossi e verdi e motivi ricorrenti di grano, uva e altri frutti della terra. L'aria era pesante, odorosa di incenso e di eccitazione umana, e gli umani erano tutti assiepati uno contro l'altro, uomini donne e bambini che salmodiavano in coro tenendosi per mano.
Al centro della sala, alta circa sei metri e dal soffitto curvo, scavato anch'esso nella roccia da lava millenaria, svettavano due pali di legno circondati da fascine di rami secchi.
C'erano, oltre al corridoio che avevano appena percorso, altre tre gallerie che sbucavano nella sala cerimoniale, ognuna decorata in cima da quelle ghirlande di carta bianca che normalmente si vedevano attorno ad alberi sacri, cancelli di templi et simila.
Ora che erano più vicini, potevano capire alcune delle parole cantate dai fedeli.
Raccolto,
rinascita,
sacrificio,
accetta o Dea,
salvaci,
salvaci,
salvaci.