Kirigakure no Sato, 2 Febbraio 249 DN, ore 09.00
La ghiaia scricchiola sotto i calzari, un passo dopo l'altro, un passo dopo l'altro, sempre uguale, sempre diversa, su quella stradina a picco sul mare.
La scogliera sprofonda nei marosi insistenti, ostinati, battuti e schiaffeggiati da un vento capriccioso che viene da nord: raffiche fredde che pungono le guance, che spazzano la nebbia; l'occhio del sole risplende distante, pallido, perso nei suoi affari, non riscalda la figura che avanza a passo svelto, senza rallentare.
L'impermeabile grigio abbottonato fin sotto il naso e il cappuccio abbassato, appena lo spazio per vedere dove mette i piedi; un involto tra le dita intirizzite – tre onigiri e un cilindro di bambù pieno di sakè, perché quando si va a casa d'altri, non lo si può fare a mani vuote.
Aveva letto sui libri che fosse muto, che la sua mente fosse turbata, distorta: un folle, un pazzo. Si narrava che abitasse nella foresta, in un capanno, tutt'attorno un giardino malato di corpi e acciaio. Che brutalizzasse qualsiasi umano invasore, che osasse penetrare le sue terre e che divenuto immortale, si aggirasse per la Nebbia, assetato di sangue caldo... eppure non è una capanna, quella che vede in lontananza, né questa si trova nel mezzo della foresta.
Il mare grigio e inquieto si agita all'orizzonte, sotto le finestre della magione: tradizionale, ben tenuta, più ampia di quanto una singola persona possa aver bisogno. Nessun lugubre ornamento ne segna i confini, nessun cadavere, nulla di nulla.
I libri dicono che nove anni fa, Keiichi del Deserto schiacciò la testa di Kiri nel fango, e poi se ne andò; nove anni fa, Urako ne aveva appena sei.
Lui tanti di più.
I Sette scapparono... - dicono i libri - eppure
lui , davvero si mosse di là?
Il Diavolo le ha detto che i libri non sono scritti dai Kami, che sono imperfetti, e se Urako dice che anche i Kami possono sbagliare, non resta che chiedersi che fine faccia la verità, dopo che accade.
Rallenta il passo:
cinquecento metri a separarla dalla meta. Non c'è dubbio, il luogo è quello.
Si arresta: gli occhi scuri scrutano la piana coperta di un'erba stentata; le mani afferrano i lembi del cappuccio e lo tirano indietro, che il vento le frusti liberamente i capelli scuri e le ululi lamentoso nelle orecchie – che iniziano a dolerle dopo pochi istanti. L'odore di mare nemmeno si sente, nel naso gelato.
Il Mizukage ha detto che nessuno è mai tornato, che mai qualcuno l'abbia mai convinto; nessuno dice che siano morti, ciascuno tuttavia lo pensa.
Kobayashi-sama ha parlato di trappole.
Urako scruta quel prato morente, come se potesse scorgere fili invisibili tesi, radenti al suolo.
Non può vedere niente del genere.
Riprende il cammino, lentamente, un passo dopo l'altro, un passo dopo l'altro; vorrebbe chiamare i gatti, ma non lo farà. I libri non sono scritti dai Kami, è vero, ma come in tutti i racconti, è certa che lui
sappia, che lui
veda, e se conosce Kiri almeno un po', chi chiede aiuto non può che apparire un debole.
Quattrocento metri.
Kobayashi-sama si era mostrato ottimista.
Forza insufficiente, bramosia smodata, scarso giudizio: quali e quante di queste pecche possono albergare nel suo animo?
Ha passato due notti a rifletterci: a tratti le pareva di esserne priva, l'istante dopo era come se tutti i mali del mondo si incarnassero nel suo corpo cresciuto a metà.
Trecento metri.Ha detto anche lasciare messaggi non sarebbe servito.
Lei nemmeno con Yu ha parlato, prima di partire.
Duecento metri.Il vento soffia, le entra nel colletto, la gela fino all'osso.
Cento metri.
Finché la porta in legno e carta di riso non le sbarra il passo, impedendo allo sguardo di andare oltre: allora ripone il sakè tra il torace e l'altro braccio, solleva la mano libera, e bussa.