Tornare tra le quattro mura domestiche aveva un sapore sempre dolce, quando susseguiva giornate costellate da allenamenti, sangue e sudore. Non aveva avuto modo di riforgiare la sua Unmei, non ancora, ritrovandosi ad allenarsi con una spada priva della propria lama e dimezzata nella sua già ridotta grandezza.
Pioveva, sebbene fosse piena estate, ma oramai aveva fatto abitudine al clima e alle temperature umide del paese che le aveva permesso di ricominciare la sua vita. Lenti passi dissipavano la bruma, ma non il sempre presente odor di ferodo, che stuzzicava le narici con la sua delicata, e pungente, essenza. Pozzanghere vi si erano formate al suolo, alcune superficiali, altre vistose e profonde, per quanto una pozzanghera potesse esserlo. Giunse dinanzi il portone in mogano, lasciando che le proprie mani scattassero verso la parte anteriore del corpo, in modo da prendere le chiavi di casa. Era stanca, provata da un allenamento durato più di cinque ore e che aveva messo a dura prova la sua resistenza fisica, che di suo non era eccezionale, non quanto lo fosse in un passato che la sua mente aveva oramai escluso ed archiviato in una qualche cartella posta nei meandri della sua memoria, sicuramente dimezzata da quella barriera marmorea che continuava a vedere nei suoi frequenti incubi.
E se gli dei me la mandano buona, anche questa è andata.
Era andata davvero, la giornata. Chiuse la porta alle proprie spalle nel silenzio in cui l’aveva aperta, dirigendosi senza perdersi in chiacchiere al piano superiore, ove avrebbe trovato il suo amato bagno. Un saluto fu rivolto alla vecchia Aiko, prima che s’avventurasse in fretta e furia verso la rampa di scale, che salì con premura, quasi stesse gareggiando contro un’eventuale rivale. “Mi sei mancata, oh mia amata” poco ci mancava che non si lasciasse cadere in un abbraccio a quella vasca, ch’era attualmente il suo unico ed insostituibile amore. Lasciò che i vestiti scivolassero lungo il suo corpo, per poi incontrare il freddo pavimento. Si mosse verso lo specchio, ove ritrovò puntualmente la sua immagine riflessa: occhi stanchi, labbra lievemente screpolate e capelli legati in una coda sfatta. Era stanca ed era innegabile. “Stanca”.
« Sei cresciuta, in questi anni.
Hai mutato i lineamenti del tuo viso.
Sei diventata donna.
Una kunoichi.
Ti alleni come fosse l’unico motivo per cui vivi, cerchi il fuoco che arde come te, che ti dà quel senso di famigliarità che non riesci a riscontrare in nessun’altra cosa, eccezion fatta per quella lama. Rotta, esattamente come te. Ricordi ancora quella guerra? ‘La guerra del mio cuore’, così la denominasti. Cavalcavi un cavallo bianco, impugnavi una spada che valeva probabilmente più di qualsiasi altra cosa possedessi. E guidavi della gente, la tua gente. La stessa di cui adesso non ricordi il volto, la stessa che ti amava e che ti acclamava quella notte, in quella loggia. Ricordi il motivo? No, non lo ricordo neanch’io. Hai ucciso, hai decapitato un uomo con la stessa furia con cui si decapita un maiale. Lo hai fatto senza ricadere in rimpianti, ma perché? Perché ricordare quelle immagini senza conoscerne il significato? Sei patetica, quando parli di valori e onore. Sai di esserlo, ma non puoi rinunciarvi. Chi eri, Jiso’o Yumin’? Perché vivi? »
Il vapore dell’acqua calda s’espanse per la stanza, dissolvendosi nell’aria. S’immerse in quella calda fonte di piacere.
Un attimo di silenzio, gli occhi fissi nel vuoto.
Un brivido.
Poi capì.
« La verità è che tieni alla pellaccia più di quanto tu tenga ai tuoi valori. »
[…]
Terminato il monologo, il bagno e la cena, il suo umore era tornato stabile e al contempo vacillante, come dei piedi che penzolano nel vuoto. Era notte inoltrata oramai, e il villaggio s’era spento, ma non il cielo. Era vivida più che mai, la luna, adornata da quelle scaglie bianche quali le stelle, il tutto contornato dallo sfondo blu del cielo oscurato. Decise di sedere in giardino, di portare con sé il piacere dell’erba e il vizio del fumo. Portò la cartina alle labbra, che umidificò, a scopo di utilizzare la saliva come collante. Infine accese quel ceppo e lasciò che il fumo la trasportasse verso mondi migliori, verso ricordi che ancora possedesse.
Volò così a Manekko, in una serata di quattro mesi prima. Aveva chiesto il permesso di allontanarsi per due paia di giorni dalla Nebbia, che le fu concesso. Aveva raggiunto quindi quel bizzarro paesino, nel paese del fulmine, carica della sua amica di viaggio.
“Qualcuno li chiama ronin, io mi definirei ‘barbona dall’erba buona’”.
Aveva bevuto in una taverna.
Aveva soppresso la fame con vino e fumo.
Era assonnata e appollaiata ad un albero, in collina, di fianco le porte del villaggio, avvolta da un’eterea cortina e con l’erba tra le mani.
Cosa sarebbe mai potuto andare storto?
“No infatti, cosa potrebbe esserci di meglio?”