|
Atto V I l tedio quotidiano attanagliava il giovane Kiriano, oramai restio alla monotonia delle giornate, sebbene in esse poteva trovare una consueta calma, quasi non accostabile alla sua terra natia. Tempi immemori erano quelli appena trascorsi, in cui aveva tralasciato le passioni, le paure, i timori, affidandosi solo alla realtà che stava vivendo. Una realtà che aveva turbato la sua vita da un momento all'altro, trasponendo i desideri in pure ambizioni designate, ormai volte verso una concretezza che lui stesso stava impugnando. Eppure, sentiva veramente di essere in grado di arginare quei limiti che gli venivano imposti? Non possedere il potere supremo, quello a cui lui ora ambiva. Il mezzo, la bramosia con cui era stato saziato, non era stata abbastanza per colmare quell'impazienza, quell'auspicio di porre Kiri ai fastosi albori che le spettavano? Le sue sembianze, nonostante l'avvento della Nebbia, erano cambiate in modo effimero, solo il tempo di smaltire lo stupore provocato e la situazione vigente sarebbe ritornata ad essere com'era. Apatica, burattini di un mondo che ormai controllava minuziosamente gli eventi che sarebbero accaduti a quel popolo, predestinati ad un futuro senza certezze. Intanto gli addetti adempivano alle proprie mansioni, svolgendo egregiamente ogni compito che gli era ormai così congeniale da ritenerlo una propria peculiarità. In quelle ore aveva potuto osservare la disciplina ferrea che erano soliti assumere i marinai, forse dovuta dall'autorità emanata dalla figura del Capitano, un uomo senile che, non esattamente in buone condizioni, sapeva coordinare eminentemente la propria forza lavoro. I suoi connotati erano comuni a chiunque avesse navigato per decenti, con le conseguenti ferite riportate di cui ne esibiva le cicatrici e un aspetto pressoché trasandato dovuto ad un esposizione ingente all'astro solare. La luce che fluiva attraverso le fronde delle plumbee nubi era novizia, originata da un sole che con prode coraggio aveva osato sovrastare l'ingerenza delle tenebre, tormentate poiché private del proprio posteggio. Tramite lo sciabordio dei barlumi, i bagliori s'infrangevano dolorosi sulla pelle efebica del giovane chunin, mentre ciò che veniva proiettato dalle sagome dei partecipanti alla missione indugiava sul pavimento ligneo creando forme contorte.
Revisionava accuratamente le schede dei Jonin - Medici che lo avevano accompagnato, tentando di scorgere, nel peggiore dei casi, qualche segnale evidente di poca affidabilità, di minore lealtà o di ostentazione dell'angoscia in momenti nefasti. Il tempo, inesorabilmente, scandiva ogni secondo di quell'esistenza effimera, fugace, continuando a tessere le proprie angherie, i propri misfatti. Quei sinistri ancora estranei agli uomini, i quali avrebbero dovuto affrontarli a tempo debito, quando il male avrebbe reciso quel filo che lo teneva rinchiuso, accantonato. Solo pochi mesi prima esso era sfociato, quella goccia era vacillata dal vaso che ne costituiva il recipiente ed aveva diffuso in tutte le lande conosciute gli esseri abietti tramutati mentalmente da una persuasione onirica. Intanto, però, la situazione andò regredendo. La contingenza climatica che li aveva accolti aveva snaturato totalmente le proprie generalità, introducendo l'equipaggio in ambiente in preda alle intemperie. Le onde iniziavano ad aumentare la propria cresta, divenendo ruggenti ed infrangendosi fragorosamente contro l'involucro di legno che proteggeva lo scafo della nave. Per il momento, però, tutto era contenibile, dato che l'imbarcazione su cui erravano era abbastanza vigorosa e ben dotata strutturalmente. Sebbene tali caratteristiche poterono tranquillizzarlo, un senso di inquietudine iniziava a turbarlo, come se qualcosa li respingesse, una forza transeunte rigettava gli ospiti dal territorio dell'Isola Celata. Quella Notte non era come le altre. Le sorti della missione dipendevano interamente dall'abilità navale del Capitano, dalla sua congenialità ad affrontare determinati frangenti rischiosi. Il volto freddo ed efebico del ragazzo osservava in tutta la sua incredulità ciò che gli si palesava dinanzi.
Il mare, estesa pacata e quiescente, era ora retta da un senso di malsana follia, rifiutando l'avvento dell'Artefice, uno degli emblemi della Kiri labile. Non era quella la linfa che madida lambiva le coste della sua terra natia, come una tutela per quella progenie, ormai assuefatta dalla sua presenza. Non vi era la frescura del giorno iniziato, carica di futilità e nitidezza nuova. Non vi era il frullare cadenzato delle ali di volatile al di sotto del cielo di zaffiri quiescenti, o il berciare terso dei marinai che si recavano nelle zone nevralgiche della nave a cui erano stati assegnati. No, Affatto.
Tutto sembrava pallido e spento.
Tacito era l'ambiente, nonostante i rumori assordanti importunavano la traversata. Stenti, Paura. Ormai si stava allontanando da quell'armatura che aveva eretto sulla propria figura, fatta solo di sangue, dolore e morte. Non sarebbe durato, diremmo, se non avesse avuto quell'incondizionata emozione e in tal caso non avrebbe potuto usufruire del coraggio nelle situazioni meno vantaggiose e combattive. Aveva ostentato troppo quel mero carattere di cui era dotato in parte, ne aveva esaltato le caratteristiche fino a sforare il limite massimo, fino a far traboccare quello stato emotivo in cui sostava durante periodi di intensi cambiamenti emozionali. La natura gli scorreva ai lati del viso, la vista, nonostante tutto, deviava il suo sguardo per ammirare le beltà di cui era dotata, un luogo così familiare, così simile a quello che aveva lasciato a Kiri per riportare l'Ambrosia nel proprio villaggio natio. Il cuore parve rincuorarsi, il vedere tale immagini lo trasportò in una realtà priva di dolore, di pensieri, di paure. Poteva paragonarlo ad un sogno, a metà tra l'onirico e l'incubo, la bellezza e la crudeltà. La prima per ciò che esso l'aveva indotto a fare, a sperare, la seconda per come, invece, si era palesato. Gli mancava quel velo protettivo, che lo faceva sentire al sicuro nonostante non fosse a casa propria, che ormai aveva rabbrividito interamente il suo corpo con le sue gelide dita e, ora, che non vi era più sentiva come un'astinenza. Quella era fittizia, non aveva alcun legame con la sua Protettrice, era nefasta, con un indole malvagia, restia ai viaggiatori. I muscoli incominciavano a risentire di quel dolore fisico, se avesse continuato così per ancora molto tempo, in caso di scontri, avrebbe perso, sicuramente. L'acido lattico che fluiva per ammortizzare i movimenti incominciò a ridursi, divenendo sempre minore. Poggiò il polso della mano destra sulla fronte per destarlo dal grondante sudore che s'era fatto strada, nonostante il tempo non ottimale.
I volti sconcertati dell'equipaggio erano, ora, riflessi nelle sue iridi diamantine. Chiuse gli occhi, uno sbattito di palpebre e ciò che ritrovò non fu quello che si augurava al loro dischiudersi. Ancora quello scenario apocalittico, ancora quella biforcazione angusta, di cui non conosceva la retta via. Sentirsi sopraffatto dalle emozioni, dalle sensazioni, da quella responsibilità che flemmaticamente ne attanagliava lo spirito, logorandolo dall'interno, inducendolo a rifugiarsi nel proprio io. C'era un ma. Lui cosa avrebbe dovuto fare? Poche volte si era trovato in situazioni del genere, ove le proprie risposte avrebbero dato un esito positivo, o no, alla missione. Un ingente peso aggravava i suoi pensieri, le congetture che elaborava per indurre gli uomini, suoi sottoposti, a credere alle sue parole, quelle che avrebbe proferito per persuaderli a sostenerlo. Le sue palpebre si socchiudevano al freddo, gli occhi umidi disegnavano i lineamenti dei volti di ogni jonin che si era posto dinanzi alla sua autorità. Le labbra un poco dischiuse, sentiva ad ogni respiro l'aria glaciale che gli riempiva la bocca e scorreva sulle screpolature della pelle, perché nel silenzio e nell'inquietudine sono le cose piccole ad attirare l'attenzione dei suoi pensieri.
Come avrebbero potuto affrontare quella nebbia? Ponderava, analizzando celermente nella propria mente tutte le informazioni acquisite durante le prime quarantotto ore. Se si fossero fermati, ancorando lì, in quella zona la nave avrebbe dovuto subire ripetutamente le angherie delle onde, la frustrazione del vento, la veemenza della pioggia. Prima o poi le assi si sarebbero deteriorate e frantumate dopo l'attacco inevitabile delle acque. Quei banchi plumbei si sarebbero potuti potrarre per giorni, settimane, e in quell'interminabile periodo i viveri sarebbero diminuiti, inducendo gli uomini all'ammutinamento. Ecco, quella idea balenò tra i suoi pensieri, come un barlume che si distanzia dal flusso, libero e svincolato dal resto. Farsi una strada, attraversandola, sebbene con un passo lento, sarebbe stata una decisione più legittima in quel caso. Ora non gli rimaneva altro che persuadere i suoi uomini, dilettandosi nell'oratoria, unica forma congeniale in quel contesto.
- Voi, Shinobi, credete di avere paura di fronte a questa nefandezza? Non è nebbia, noi ne conosciamo solamente una. Colei che ci protegge, colei che ci nasconde. Non possiamo tornare indietro, sarebbe disonorevole. Volete morire con questo peso, con quest'angoscia che non vi permette di riposare? No, io non potrei. Se accetto una missione tento ogni soluzione che mi possa concedere il suo epilogo. Siamo Shinobi di Kiri, impavidi, silenti. Abbiamo le doti, abbiamo le conoscenze, abbiamo la forza per vincere. Quindi, perché arrendersi? Perché fare queste smorfie di inquietudine, di paura? Noi siamo ninja senza paura. Ricordatelo. Se ci sono imprevisti dobbiamo valicarli, non possiamo fermarci. Volete ritornare a primeggiare sulle restanti nazioni? Ecco, allora fatemi vedere cosa siete capaci di fare. Arashi ed Emi, create delle barriere di vento che ci permettano di diradare la fitta nebbia, Capitano lei prosegua con velocità bassa e faremo in questo modo finché non saranno avvistate le lande dell'Isola Celata. Facciamolo per Kiri. Fatelo per me.
Concluse, sebbene sapesse che la sua capacità non fosse al livello di quei jonin, già il rango li distanziava quindi ciò esplicava una differenza di potere ingente, seppur non insormontabile. Avrebbero potuto anche non accettare quel discorso, denigrando la figura dell'Artefice e non ritenendola appropriata come guida. Ne era conscio, ed era quella la paura che più assillava. Sapeva che alcuni, retti dalla disperazione, potevano remargli contro, ma sperava che il primo passo verso di lui di uno dei dieci avrebbe dato il coraggio al resto dell'equipaggio di seguire quell'esempio. Era tutta una reazione a catena e lui ambiva ad esserne il preludio.
|