Le parole della donna gli giunsero sfumate, ovattate nelle orecchie, come se avesse avuto batuffoli di cotone a tapparle. La sua figura, poi, offuscata dalla vista malconcia e dal buio della stanza, gli apparve pallida, con quei lunghi capelli neri ad incorniciare una figura smunta, allungata. Per un attimo la figura del medico venne frapposta a quella di sua madre, a quel demone immondo che, su di lui, aveva solo riversato l'amore malato che può avere un famelico ghiotto su un arrosto invitante.
Tremò per la paura il piccolo, terrorizzato di aver nuovamente a che fare con quel mostro, ma il mondo intorno a lui ricominciò a spegnersi, lentamente, per effetto di un qualche sedativo, utile per calmarlo. I tremori si placarono, il respiro si fece più lento, il battito del suo cuore più regolare e si addormentò.
"Un sogno... Si... Solo un brutto sogno..."Non ebbe idea di quanto tempo dopo si risvegliò. Aprì gli occhi lentamente, disteso in quel letto, sbattendo le palpebre più e più volte, nel tentativo di cercare di mettere a fuoco l'ambiente che lo circondava, offuscato dall'astigmatismo e dal buio della stanza. Questa volta, però, non serbava nel cuore la paura che, al suo primo risveglio, l'aveva reso incapace di orientarsi. Era più vigile, lucido e attento, com'era giusto che fosse. Proprio come gli aveva insegnato il suo papà.
"Devi imparare a saper percepire il mondo anche con gli altri sensi. È importante, sai, per evitare che il mostro ti catturi. Dove gli occhi non possono vederla, devi imparare a sentirla con l'udito. Senti? Il rumore dei suoi passi felpati sul parquet? Si muove leggera, in punta di piedi, ma lo senti, no? Quel lieve scricchiolio delle assi, quando sposta il peso da un avampiede all'altro?" Sfocata, intravide qualche spia accesa, con un lampeggio accompagnato da un suono metallico, artificiale, lento e continuo.
Bip. Bip. Qualche passo più in là, qualcuno che camminava a passo sostenuto, di chi sembra aver fretta perché deve fare mille altre cose, le suole sbattere sul pavimento, stridere leggermente quando la gomma fa attrito, nel momento in cui si fermano.
"E se ci sono troppi suoni, o troppo pochi, rivolgi l'attenzione verso gli spifferi d'aria che percepisci sulla pelle, sempre! E afferrane l'odore. Bagnati le labbra, leggermente, così da renderle più sensibili e poi rivolgiti verso quel formicolio che percepisci." La lingua scivolò su labbra screpolate, ruvide come carta vetrata, la saliva bruciante sulle crepe più profonde. Rimase così, per qualche istante, immobile, gli occhi chiusi concentrato sulla sensazione delle sue labbra umide, sfregandole tra loro nel tentativo di umidirle maggiormente. Un singolo spiffero, sottile, non troppo invasivo, provenire dall'alto... Una bocchetta d'areazione? Corrucciò il viso, il piccolo bambino, cercando di studiarne il movimento, ma qualcosa sulla fronte lo infastidì. Cercò di alzare il braccio sinistro, sentendolo pesante come un macigno, per potersi toccare e... Era bendato, così come il braccio. Avvicinò quindi l'avambraccio al viso, nel tentativo di metter meglio a fuoco, ma risultò dannatamente difficile.
"Bravo, esatto. Inspira lentamente... Li senti, gli odori? Certo, sono tanti, ma quel mostro ha sempre lo stesso, identico odore: pungente, acre, una nota di sudore rancido magistralmente mascherato dall'odore di camomilla e rosmarino." Inspirò con una certa fatica, il naso intasato dai muchi. Riconobbe una leggera nota polverosa, tipica di quei posti che non hanno finestre con cui poter cambiare aria e... Quegli odori chimici, pungenti, simili a quelli dei prodotti usati da suo padre.
"E ora dimmi, piccolo mio: lo sai dov'è il mostro?" Sospirò il piccolo Hanna, facendo cadere pesantemente il braccio al suo fianco.
"Sono in ospedale..."Dopo quella prima rivelazione, Hanna si ritrovò confuso, disorientato. Non serbava alcuna memoria di come fosse finito lì, né, tanto meno, aveva idea di quale male l'avesse costretto a letto in quella maniera. Avrebbe voluto esaminarsi, per poter capire quanto fosse messo male, ma solo alzare il capo risultò un'impresa, perciò desistette, almeno in quel primo momento, preferendo aspettare, giusto un altro po', per recuperare le forze...
Quanto dormì, nuovamente, non seppe quantificarlo, ma questa volta sentiva di avere le giuste energie per potersi sistemare meglio sul letto, cambiando la posizione da una perfettamente supina, tirandosi un po' su con la schiena, strisciando verso l'alto tra le lenzuola di cotone. Un movimento in apparenza semplice, poco complesso, ma già nel mettersi in quella posizione le vertigini presero il sopravvento, dandogli un'orrenda sensazione di vuoto. Inclinò leggermente il capo all'indietro, gli occhi chiusi, in attesa che la sensazione di vorticare in mezzo al stanza scemasse, lenti respiri profondi ad accompagnarlo.
Un lungo sospiro, a segnalare il suo sentirsi nuovamente sicuro, ed ecco che provò ad addrizzarsi meglio, sistemando le coperte sul ventre.
«Ok. Bene. Piccola pausa, adesso. » Anche la voce gli uscì incerta, roca, com'era tipico di chi era rimasto in silenzio tanto a lungo, ma la cosa non lo crucciava particolarmente. Era ben conscio del fatto che il suo corpo avesse bisogno dei suoi tempi, per poter riprendere a carburare a pieno regime. Doveva avere pazienza, solo quella e...
Notò gli occhiali, al suo fianco, nel letto. Evidentemente qualcuno glieli aveva lasciati sul petto, per poi esser scivolati quando si era rimesso su, un minimo seduto. Avevano una montatura sottile, color argento, a sostenere grandi lenti tonde. Quando se li inforcò sul viso, sospirò rasserenato: ora che vedeva perfettamente, sentiva il suo indicatore di carica salire di un paio di tacchette.
« Jōi, mi senti? Ti sei nascosta, per caso? » Volse lo sguardo per la stanza, speranzoso quasi di vedere la familiare figura del pupazzo vestito da infermiera, ma il sorriso neo nascituro si spense sulle labbra, constatando amaramente di esser solo. Non c'era nulla di suo, lì dentro. Chissà dov'era finita, la sua amata bambola di pezza munita di grembiule e cuffietta medica?
Avrebbe potuto evocarla, se ci fosse riuscito... E fu così che notò che anche l'altro braccio era fasciato, bello stretto, tra l'altro e che, cosa che non aveva notato all'inizio, avevano vergate, entrambi sulle bende, intricati sigilli. Certo, non ci capiva una fava di arti mediche, ma probabilmente servivano per curare la misteriosa causa per cui era chiuso lì, no? Jōi senz'altro avrebbe potuto risolvere per lui quest'enigma: dopotutto, racchiudeva al suo interno l'anima di suo padre e se non le sapeva lui, queste cose, che era un medico, chi altro poteva conoscerle?
Si morse il labbro, in modo tale da ottenere un piccolo taglietto da cui far uscire un'esigua quantità di sangue, lo stretto necessario per poter effettuare l'evocazione. Compose i sigilli e... Niente. Riprovò nuovamente e, come prima, sentì l'energia defluire, venir assorbita e nullificata. Si guardò le braccia, indispettito: che la causa fosse dovuta proprio a quei sigilli?
« Che pizza! » Borbottò, sbuffando e cadendo pesantemente tra i cuscini, incrociando le braccia al petto. La cosa gli dava un certo fastidio e, dalla sua espressione, era quasi lapalissiano. Dopotutto, si trattava pur sempre di un bambino e i bambini, si sa, per certe emozioni sono libri aperti, tanto facili da saper decifrare.
Le dita della mancina tamburellarono sul braccio destro, mentre i piedi si muovevano facendo perno sui talloni, da sotto le coperte. Perché quei sigilli si comportavano a quella maniera? Perché ce li aveva? Chi glieli aveva messi? Tante domande lo assillarono e solo una persona poteva dargli risposta: la donna che aveva visto, quando si era svegliato la prima volta.
Grugnì, indispettito. Non se la sentiva, per il momento, di alzarsi, avrebbe aspettato ancora un po', ma... Se non usciva da quella stanza si sarebbe messo ad urlare.
« Uffa! » Pronunciò ad alta voce, distendendo di scatto le braccia e facendole ricadere di fianco. Doveva trovare assolutamente qualcosa da fare... Si guardò circospetto intorno, ma tanto era da solo, quindi... Avvicinò le mani tra loro, i palmi aperti tesi l'uno di fronte all'altro. Fece avvicinare tra loro i due indici e un piccolo bagliore lattescente illuminò tenuamente i polpastrelli. Lentamente li allontanò e, ad unirli, un sottile filo lattescente, fiocamente illuminato. Sorrise trionfale il piccolo, convinto di poter riuscire a lavorare qualche giro di maglia, ma non appena inforcò tra le dita le prime maglie avviate, i sigilli si attivarono, assorbendo al loro interno quegli esigui filamenti di chakra. Gli occhi spalancati, il bambino osservò a bocca aperta il suo lavoro andare letteralmente in fumo. Iniziò a dimenarsi, arrabbiato, sbattendo i pugni e tirando calci, per poi togliere un cuscino e lanciarlo contro la porta. Solo che, adesso, era di nuovo perfettamente supino. Digrignando i denti, volse lo sguardo verso il morbido guanciale.
« Kuso... » [...]
Il bambino si guardò intorno con aria titubante, fin troppo simile ad un cerbiatto timoroso di allontanarsi dalle zampe di sua madre, per esplorare quella vastità sconosciuta del mondo che lo circondava. Sabaku no Yumi l'aveva da sempre intimorito, da quando era giunto lì ad Oto: i suoi modi, i suoi gesti tanto eleganti, così come la sua fisionomia, gli ricordavano terribilmente sua madre, e se la sua genitrice era stata in grado di nascondere la natura mostruosa che possedeva, cosa impediva lei di fare altrettanto?
Annuì remissivo, sedendosi rapido alla sedia che la donna gli aveva indicato, rimanendo seduto in silenzio, per qualche istante, lo sguardo fisso sui piedi nudi che penzolavano a pochi millimetri dal pavimento.
« Ecco... Io... » Pronunciò fiocamente, incurvandosi su se stesso e sbirciando in direzione dell'occhio di sabbia.
"Ok. Ok. Calma. Lei non è la mamma. Lei non è come la mamma. Non mi farà del male..."Deglutendo, cercando di farsi coraggio, allungò verso di lei le braccia fasciate.
« P-perché ho queste? Mi impediscono di lavorare a maglia e non mi permettono di richiamare Jōi... P-perché non volete che faccia i miei pupazzi? Ho... Ho forse fatto qualcosa di sbagliato? » Domandò con la voce roca, gli occhi lucidi di chi sta per scoppiare a piangere.