Dovette sforzarsi per mantenere alta la concentrazione, lo stesso tono di voce, senza esitazioni e incertezze: Matatabi la sfidava di rimando, lanciando dialetticamente quel guanto come lo si lancia a qualcosa di inutile. Se quello di Setsuna era sereno, prudente, sicuro, quello del Grande Gatto gli sembrò paradossalmente irritato e rallegrato, allo stesso momento, un ossimoro in carne e ossa a cui solo una creatura così ambigua avrebbe potuto dar luce.
Il corpo, le code, il volto, ogni parte del suo corpo gli diceva quanto fosse in fermento all'idea di quella goccia imprevista che si opponeva al suo fronte.
"
No, non so che forma abbia."
Inaspettatamente, lo sentì rispondergli; non aveva più messo in considerazione quell'opzione, o quanto meno l'aveva stimata ormai fortemente improbabile. Gli rispose invece, e con quanto di più vicino avesse mai visto a un
doppio legame. Non sapeva bene come interpretare quelle parole, parole dure, da egocentrico rompicoglioni che detta ordini frignando - e non solo agli uomini, ma al sole, al mare, alla natura, a tutto l'universo, e guai se fossero così maligni da non piegarsi ai suoi desideri -, rivoltegli come ci si rivolge a un bambino, con la stessa sdolcinata falsità.
Restò a fissarlo sorpreso, ma non turbato, quanto fortemente incuriosito. Era un essere davvero stupendo, straordinario da vedere. Sembrava come se qualcuno avesse messo un arrogante bambino viziato nel corpo di un apocalittico portatore della distruzione - pensieri che non aveva in alcun modo pensato per disprezzarlo, ma solo per darne un'analisi più accurata. Chi non si sarebbe comportato come lui, avendo i suoi stessi poteri? Potendo, col semplice cenno di una mano, essere in grado di raccogliere qualunque frutto di questo mondo?
Certo, non stava mettendo in conto di non essere del tutto onnipotente, forse oscurato da quella idea tipicamente infantile che porta a considerare il raggiungimento dei propri propositi come una certezza - chissà se Yuzuki e sua moglie stessero preparando quell'arma di cui parlavano. Ammesso che non li stessero prendendo in giro tutti - il che sarebbe stata una visione piuttosto divertente. Almeno, se in quel frangente non stesse rischiando la vita anche Setsuna.
E poi una nuova svolta. Una risata a denti stretti, il terreno cominciò a tremare sotto di loro, mentre da lontano giungevano le urla dei deboli, il loro vano tentativo di disperdersi, di scampare all'inevitabile, i forsennati tonfi dei remi di quelle barche risospinte indietro senza posa, nati solamente per essere parte di un disegno troppo grande per le loro possibilità, vite originate solo per essere sacrificio del capriccio di un'entità che forse era quanto di più vicino potesse esserci a un Dio. Un Dio ormai stufo dell'imperfezione della sua creazione.
E, in fondo, forse anche per punire l'immensa vanità di quella ingenua specie.
Fissò Matatabi, quel gatto, e poi Kawagoro e le sue urla in lontananza.
Seguendo il corso logico della narrazione, adesso dovrei descrivere quanto lui stesse osservando, e sentendo, per non interrompere l'enfasi del momento, ma questo forse impedirebbe di avere piena contezza di una piccola idea che adesso, osservando questo scenario, si stava insinuando nella sua testa, e i cui effetti non ci è dato sapere, perchè - benchè sia sempre all'interno dell'abitacolo - delle deviazioni possibili alle rotte future ne so quanto voi. Detto ciò, invito a mettere in pausa il tema, e mi dileguo nuovamente in cabina.
Gli venne in mente, improvvisamente, assistendo a quello scenario, un proprio pensiero istantaneo. Gli Dei sono sempre stati considerati onniscienti e onnipotenti, e in quanto tali rispettati. Tuttavia, pensò, quella che viene considerata onniscienza e onnipotenza dagli
uomini della strada, potrebbe apparire da un diverso punto di vista come ignoranza e impotenza. Un paradosso, ma se davvero fosse stato il primo a formularlo si sentì tentato di vantarsi di tali capacità superiori alla media - che, per quanto sommessamente, aveva sempre ritenuto di avere. In fondo, non era altro che un misero umano presuntuoso, e questo ragionamento solo uno dei suoi moti istintivi. La ragione di tali qualità attribuite loro dagli uomini non sono altro che un tentativo di spiegare l'incommensurabile miracolo della loro esistenza. Di come abbiano potuto dare origine a delle forme specifiche così diverse tra loro, eppure al contempo facenti parte di un'unica realtà comune, in quanto tutte originate a immagine e somiglianza dei loro creatori, in diverse culture. Dopo aver accumulato per millenni ogni sorta di osservazione sul mondo e su se stessi - in particolar modo -, per un senso di presunzione e ottusa vanità hanno attribuito queste loro qualità a un ordine perfetto e superiore. Ogni volto, ogni essere umano era composto degli stessi elementi, eppure non ne venivano mai due uguali. Come non ammirare dunque tali estro e inventiva? Qualità tali che hanno reso possibile la creazione del genere umano così come lo conosciamo - indubbiamente, un altro moto inconscio di vanità di quella specie.
In un'ottica diversa, nell'ottica di
quei gatti che erano ormai parte della sua vita, tuttavia sentiva la possibilità che quelle stesse circostanze avessero potuto provare l'impotenza e l'incapacità di quegli stessi Dei creatori di una specie dalle forme tanto variegate. Avevano progettato un'infinità di quegli ominidi ognuno con una faccia diversa, certo, ma se non fossero state differenze da loro progettate fin dall'inizio? Non è che per caso volevano fare delle facce tutte uguali, come quelle dei gatti, ma non riuscendoci alla fine erano giunti a questa situazione confusa e asimmetrica, quanto di più lontano dal concetto di perfezione? Non era da escludere, pensava, no di certo. La creazione degli uomini, celebrata come il successo più alto del Creato, la si poteva ora giudicare la prova del suo fallimento più eclatante.
Una simile onnipotenza, sotto quest'ottica, nulla impediva di considerarla impotenza. Nel volto umano gli occhi stavano molto vicini su una superficie piana, e ciò li costringeva a vedere un solo lato delle cose alla volta - e, estendendo tale concetto, tale verità si manifestava in loro di continuo. Ciechi al molteplice e sfaccettato insito nel mondo, per natura erano tesi a perdere il lume della ragione in nome di una credenza fissa e monolitica, a cui affidare interamente il senso della propria esistenza.
Era difficile creare molte cose differenti, certo, ma lo era altrettanto se non più creare due cose identiche. Si guardi alle opere dei grandi artisti: possono creare molteplici copie di rara bellezza, eppure se gli si chiedesse di ricreare due opere identiche sfidava chiunque che non ce l'avrebbero mai fatta, che sarebbe stata un'impresa sovrumana. Quella era la prova di una mano ferma, di un pensiero, di un'Idea che trascendeva il miserabile mondo dei viventi. Se gli Dei davvero esistevano - assioma di partenza -, e fossero stati capaci di creare gli esseri umani uno identico all'altro, ammesso che davvero fossero stati da loro creati, tanto da sembrare fatti con lo stampo, allora sì che avrebbero manifestato la loro onnipotenza! Invece, come poteva constatare in quei momenti, col terreno che sentiva instabile sotto i suoi piedi, dandogli quasi un senso di vertigine, con quella possibile creazione gli Dei avevano messo sotto la luce del sole tutte le facce che gli erano saltate in mente, provando così la loro assoluta incapacità per un atto così degno di onnipotenza. L'esistenza dell'uomo, in fondo, era sempre stata sopravvalutata.
Non riesco a raccapezzarmi neanche io su come gli sia venuto in mente questo discorso. Sì, forse ora riesco a capire. Riprendiamo pure la narrazione dove l'avevamo interrotta.
Lo sapeva. E forse lo sapevano anche loro. A questo, con un po' di fantasia, si poteva far assurgere l'opera distruttrice di Matatabi, e dei Bijuu in generale: rimediare a questo assurdo errore dell'evoluzione.
Il terreno tremava, quella risata a denti stretti, e poi quelle domande, sempre simili a una sfida. Ormai completamente divampato, illuminato, insieme al Demone che guidava la sua mano forte, pronto a rovesciare la sua ira in mezzo ai popoli che prestano culto al legno e alla pietra.
Vide le sue fiamme saettare alla volta del villaggio. Fiamme blu e perfette. Fiamme pure e immacolate. Fiamme prive di luminosità, infinitamente più calde. Fiamme il cui scopo non era illuminare, ma soltanto distruggere ciò che si era rivelato null'altro che un cigno nero, un immenso errore probabilistico.
Le urla sempre più intense, un clangore indefinito che si spandeva lungo la vallata e lo raggiungeva come una remota eco di una caverna che aveva sperato fosse chiusa.
Strinse i pugni, mentre quel vento impetuoso continuava spirare alla sua sinistra e scuoteva l'area, quasi ritmicamente, su quell'unico epicentro, quasi volesse rivoltarla come solo i moti ondosi primigeni avrebbero potuto.
Li strinse ancora, più forte che potè, come unico moto visibile a quella visione apocalittica.
"
Lo maledico mio fratello... Lo maledico mio fratello... Lo maledico mio fratello..."
Doveva continuare a ripeterselo. A ricordarselo. Non c'era tempo per alcuna pietà umana se voleva sopravvivere a quella situazione. Non doveva permetterselo, in alcun modo.
"
Facciamo che io conto fino a tre..."
Alla sua sinistra, vide l'enorme sagoma del gatto muoversi; si sdraiò sornione, regale, come quell'enorme statua in pietra che aveva visto solo in uno schizzo su pergamena.
Non fece altro che aiutarlo nel suo proposito, e così lo fissò di rimando, ricambiando il suo sguardo allo stesso modo, poi tornò a fissare Kawagoro in lontananza, ormai divorato dalle fiamme, mentre Matatabi esponeva le regole di quel sadico gioco di cui immaginava in parte le regole - sì, immaginava bene.
Quelle fiamme perfette avevano fatto il loro corso. Fra poco, pensò, solo cenere, null'altro. Il fumo, origine di quell'unione, tra quelle fiamme perfette e quel combustibile imperfetto, lo vedeva salire in alto e poi spandersi sempre più nell'immensità del cielo. Restò a fissarlo per un bel pezzo.
"Così avviene, quando un'ansiosa speranza, tutta e con fede intenta al desiderio supremo, trova spalancate le porte dell'adempimento. Chè da quei fondi eterni rompe un incendio smisurato, e ne restiamo attoniti. Non volevamo che accendere una fiaccola di vita, ed ecco un oceano di fuoco ci avvolge; e quale fuoco! E' amore o è odio quel che brucia e ci avvince con paurosa vicenda di gioie e di dolori? Così che noi nuovamente guardiamo alla terra per nasconderci nel più giovanile dei veli.
Rimanga dunque il sole alle mie spalle! Alla cascata che scroscia a traverso le rocce, ecco ch'io guardo con estasi crescente. Di balzo in balzo precipitando in mille e poi mille rivi si riversa, e spume su spume frusciando lancia alto nell'aria. Ma come stupenda, germogliata da quest'uragano, s'incurva la cangiante durata dell'arco variopinto, ora con netto disegno, ora sfumante nell'aria, sempre effondendo all'intorno brividi freschi e vaporosi! Veramente è specchio dell'operare umano. Méditaci, e meglio comprenderai: in colorati riflessi noi possediamo la vita."
***
Con la coda dell'occhio scorse Matatabi abbassare lo sguardo su di lui. Di nuovo, lo fissò di rimando, e gli sorrise allo stesso modo. Gli occhi sottili, come i suoi lo erano stati pochi istanti fa, prima che avesse spalancato le porte di quell'inferno urlante, poi rispose con cenno del capo.
"
Matatabi" pensò, guardandolo sempre con quel sorriso sornione: "
Sei tra gli esseri più straordinari che io abbia mai visto. In pochi non lo ammetterebbero, credo, una volta messi di fronte alla tua reale esistenza.
Tuttavia, questo è un campo di battaglia. E in un campo di battaglia queste considerazioni non possono trovare spazio. Ci hai chiesto di dimostrarci degni di poter essere tuoi alleati... ma alla luce di quanto sto vedendo, da eremita - sì, perchè lo sono, maledizione! - da eremita dico inconfutabilmente che al momento non potrai mai essere utile alla nostra causa."
Matatabi iniziò il conto alla rovescia. Setsuna nella stessa linea focale di Kawagoro. Qualora lei lo stesse reputando realmente un nemico, probabilmente sarebbe morto. Non c'erano molte alternative. Ma cos'altro avrebbe potuto fare?
Aveva fatto del suo meglio, per districarsi in quel gioco, per l'unica cosa che valeva la pena compiere in quella partita, per perseguire i suoi scopi. Sarebbe caduto in quella ricerca?
Bhe, chi se ne fregava! Chi se ne fregava, in fondo.
"
Sei mentalmente instabile, Matatabi. Un essere libero da qualsiasi vincolo, un vero gatto selvatico incapace di scendere a compromessi. E noi, all'Eremo, cessiamo di essere gatti selvatici, incuranti del destino dei nostri compagni. Nulla ci dice, io dico, che tu possa essere in grado di ricambiare questo nostro patto sociale.
Ho appurato la tua natura, come mi chiese Sousui al tempo, e ho preso la mia decisione. Non solo non ci servi. Ci saresti anche dannoso."
Questa era la conclusione a cui era giunto.
"
Vediamo un po' come si concluderà il nostro gioco. Le mie speranze sono poche, ma chissà. Spero per te che non ti sia spinto troppo oltre, perchè il prezzo di un'ambizione troppo grande è la propria rovina. Io, con ogni probabilità, mi sono spinto troppo avanti da un pezzo... non proprio per mia scelta, ma è andata così, che posso farci?
Comunque vada a finire... è stato un piacere conoscerti... Grande e vero signore dei Gatti."
Certo, non che importasse molto, al momento. Estrasse la spada, mettendosi in posizione di guardia, mentre il conto alla rovescia incalzava. Due secondi prima della fine.
"
Non affonderò i colpi, nella vana speranza che Setsuna non mi veda come un nemico - non che servirebbe a molto affondare i colpi, anche in caso contrario. Chissà come sono le tecniche degli Hyuga, almeno prima di morire le vedrei all'opera. Non che servirebbe a molto, diverrebbero nulla prim'ancora di averle assimilate. Bhe, fanculo! l'avevo previsto da un pezzo. Fra un po' tutto questo non sarà più neanche un ricordo."
L'ultimo secondo.
"
In fondo, questo gioco è stato... un vero spasso."
Stava già trattenendo il respiro, pronto per quell'ultimo slancio, quando udì quella voce in lontananza. Una voce distorta, inumana.
Aguzzò la vista, verso quella che pareva esserne la fonte, abbassando lentamente la lama.
"
Ma che caz -?"
Era Arashi Uchiha, che diavolo stava facendo? Stava dissimulando, ovvio, il punto era per quale motivo?
Forse era in atto quella sua sorta di evacuazione, e stava tentando di guadagnare qualche secondo per metterla in atto. Piuttosto improbabile, o almeno, se così fosse stato, ci sarebbe rimasto di sasso, e non di un sasso qualsiasi, ma di un sasso a forma di faccia incredula: Kawagoro stava bruciando, gran parte dei suoi inutili abitanti stava bruciando, ne sentiva l'odore in lontananza ormai, poteva credere che stesse mettendo così in gioco la sua vita - sì, si stava puntando un kunai alla gola, e si stava per sacrificare tra le fauci del Nekomata - per quello che diceva, per quell'evacuazione senza speranza?
Possibile. Ma voleva dare fiducia alla sua intelligenza. Si guardò a destra e a sinistra, senza individuare nulla. Il sensitivo, ovviamente, sempre annullato dal campo di forza di Matatabi.
L'unica opzione sensata era che Yuzuki e sua moglie stessero preparando quelle armi - cos'erano? delle sciarpe? dei ciondoli? insomma, era lo stesso! - per imprigionarlo, e così lui stesse guadagnando tempo a tal proposito, era possibile, e - "
Cazzo, ha la voce tremante, come se sia sul punto di scoppiare in lacrime. Merda, non sul punto..."
Se c'era una manifestazione di debolezza che aveva sempre detestato, era proprio quella. Insieme ovviamente a tutte quelle reazioni incontrollabili che si ripresentavano saltuariamente, senza che gli si potesse opporre grande resistenza. Almeno, senza un continuo esercizio di soppressione.
"
- Penoso."
La lama toccò terra. Certo, avrebbe potuto pensare che Urako, pur non mettendo in atto una simile freddezza - durante il loro primo incontro, gli era sembrata tra le persona più deboli che avesse mai visto -, lo aveva presto ricreduto. Che forse, si poteva continuare a essere forti, pur inciampando talvolta in quegli slanci di umanità incontrollabile, ma questo non gli venne in mente. Forse ci avrebbe potuto ripensare a mente lucida, a situazione tranquilla - qualora non fosse morto, cosa poco probabile -, ma non in quel momento.
"
Merda, non la smette fino alla fine; e se non accetterà cosa farai, ti metterai di nuovo a pian -?"
Quel pensiero gli restò a mezz'aria. Fu lui stavolta ad avere una reazione incontrollabile, un lieve sobbalzo, mentre osservava quella sagoma in lontananza caricare come un toro verso un muro irto di spuntoni.
"
Pazzo!"
Fu un sobbalzo potente, tanto fu lo stupore. Una reazione incontrollabile.
Di quelle che ci imbarazzano, ci mostrano deboli e fragili, ma che sommessamente rassicurano. Perchè sono le uniche che ci danno conferma di essere ancora vivi. E umani.
Che cosa pensava di fare? Come pensava di sopravvivere? Probabilmente non ci pensava proprio.
"
In fondo, il prezzo di un'ambizione troppo grande è la propria rovina.Edited by Jöns - 12/3/2018, 10:28