Notte strana, quasi lugubre, avvolta da un manto – una cappa – di misteri, morte e sangue. L’animo di kenshin vagava lontano, sotto una maschera di porcellana bianca dai tratti indefiniti, mentre i passi suoi e di Ryu, silenti e leggeri, calpestavano l’erba umida e il fruscio del vento ondeggiava tra i loro corpi.
Un brivido freddo percorse quel corpo martoriato e una strana sensazione prese il possesso di lui: gli occhi si voltarono indietro, alla luna e all’orizzonte oscuro, mentre pensieri foschi affioravano nella sua mente.
Due ombre nella notte e una cupa presenza aleggiava intorno a loro; mentre le dita accarezzavano l’elsa rifinita della sua Katana, Ryu gli porse un rotolo. Un rotolo con l’ultima tecnica segreta per gli ANBU assalitori. L’ultima per dirsi concluso il suo addestramento – ma chissà se avesse avuto il tempo di metterlo in pratica – e gli occhi, avidi e curiosi, lessero il segreto ultimo.
Trasfigurazione Animale.
Non a caso l’ANBU assalitore è una macchina di morte perfetta: corpo d’acciaio, furore guerresco, voglia omicida erano solo la corazza superficiale di una via diversa. Loro erano le prime forze di difesa, e anche le ultime, di un villaggio; loro che con il corpo proteggevano da oscurità, pericoli, tenebre ed errori il villaggio stesso. Con la furia del riottare, il sapore del sangue sulle mani e sulla lingua, e la furia nei loro animi.
La furia. Una furia profonda, antica, come quando l’uomo era ancora giovane e solo la propria forza, la propria parte più animalesca, retaggio antico, era l’unica arma per sopravvivere ed affermarsi. Mettersi in comunione con quella parte oscura e farsi aiutare da essa. Combattere il male con il male. Con la parte più malvagia, oscura, densa di tenebra che l’animo umano potesse avere: quella su dove Watashi fece, e fa tutt’ora, leva. La parte che ogni uomo, in quanto imperfetto, tiene celata, nascosta, dentro di sé; le proprie tenebre che in alcuni prendono il sopravvento portandoli alla pazzia e al sadismo.
Ognuno nasce con una parte buona e una malvagia; solo il tempo fa si che una delle due prenda il sopravvento sull’altra ma qui era diverso, qui non si trattava di discussioni filosofiche o di altro. Qui significava guardare in profondità l’abisso celato e oscuro della propria anima, guardarlo senza timore e da esso trovare la forza per battersi ancora. Battersi facendo si che la propria furia, i propri desideri più sfrenati, le proprie paure e timori, la propria oscurità prenda corpo, forma e sostanza e sia libera di scatenarsi.
Per le popolazioni barbariche dell’ovest questa mistica forza, vetusta, arcaica, pericolosa retaggio di quando l’uomo era ancora più simile ad un animale, la chiamavano BERSERKER. Combattenti dove la furia e la fusione con la loro parte oscura prendevano significati antichi e rituali. Non bisognava avere paura della propria parte oscura, ma accettarla, farla propria, e usarla perché nella battaglia non vi è nulla di perfetto e saggio; vi è solo pazzia, sangue, stupidità e istinti bassi e deplorevoli. La guerra è un errore e in essa non vi può essere la gloria.
Kenshin lo sapeva bene: pur essendo un samurai, un guerriero, cercava di sguainare il meno possibile il filo della sua sorella d’acciaio, per cercare altre vie. Perché non vi è nulla di saggio a togliere la vita, non vi è nulla di encomiabile in essa, vi è solo pazzia. E nessun uomo si può arrogare tale diritto; ma vi sono paci che si trovano solo al di là di una guerra alcune volte, il filo della katana deve essere mostrato e quando lo si fa bisogna avere chiaro il perché di tale gesto e capire profondamente se stessi e il momento dell’atto. Un atto che ha delle conseguenze ferali, dove un uomo può uccidere ed essere uscito.
Quante volte lo aveva fatto e quante volte la furia della battaglia – come un istinto primordiale – lo aveva colto e fatto suo. Che in quei momenti anche lui si stava mettendo in comunione con la sua parte oscura? In ogni caso l’olezzo di morte e sangue riportarono kenshin e la sua anima sul momento, la mente si fece attenta senza divagare e i suoi sensi acuiti sul presente; i polpastrelli che accarezzavano la Katana e il suo animo pronto di nuovo alla battaglia.
Watashi rendeva manifesta la sua presenza: la natura marciva, i fetori – come respiro di quel maledetto - offuscavano il cielo e le speranze, ma gli occhi erano vigili e attenti, consci di quello che facevano e il perché.
Vi è un solo giudice dell'onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.
Il Meiyo. La frase che ogni guerriero doveva ricordare, perché facendolo ricordava a se stesso chi era e le proprie azioni. Giuste o sbagliate bisognava andare avanti, dritti come il filo di una katana e taglienti come essa. Rispettare se stessi e le proprie idee per non essere burattini di una scacchiera mossi da mani altrui: le uniche mani che dovevano muovere la sua anima erano le sue. E solo i kami sapevano quanto il cuore di kesnhin fosse libero, orgoglioso, volitivo e che la sua strada – benché il destino fosse avverso – l’avesse spianata secondo i suoi desideri.
E così, mentre l’olezzo si fece più forte e il momento ferale, kenshin fu pronto al riottare. Le ultime parole di Ryu, unica che lo aveva trattato da uomo e non da povero sfortunato condannato a morte – e mentre, con un cenno della testa acconsentì, sibilò le sue parole mentre i suoi occhi furono all’orizzonte e la mano pronta al Battou Jutsu.
Ci rivedremo sicuramente. Ho una cena ancora…e poi mi dirai il tuo vero nome…per cui cerca di non morire…Capitano!